QuattroStati 2007 - Luca Boellis

Autore: Luca Boellis alias DerSterber

Periodo: 5/23 agosto 2009

Partecipanti: Luca & Annalisa su Honda Transalp XL650V, Luigi Barone & Steffola su Kawasaki Versys 650

Una sera qualsiasi, in occasione di una pizza con gli amici della Tavesuvio, Luigi O’ Barone, complice l’entusiasmo per il recente acquisto di “Mimosa”, mi apostrofò dicendo: “ma tu ed Annalisa quest’estate cosa fate? Io e Steffola vorremmo fare un bel giro, adesso che ho la moto nuova. Avevamo pensato di raggiungere Barcellona in traghetto e poi, da lì, Mont Saint Michel; quindi di nuovo Barcellona e traghetto per l’Italia. In tutto saranno meno di duemila chilometri”.
L’argomento “vacanze 2007” era stato già affrontato da me ed Annalisa ma, non essendo riusciti ad individuare una meta appetibile, avevamo deciso di rinunciare al solito viaggio in moto e ripiegare su qualcosa di molto più tranquillo (ed economico).
“Credo che non faremo proprio nulla; quest’estate nessun viaggio. Anche se mi piacerebbe vedere Mont Saint Michel. E poi, vicinissimi, ci sarebbero la Normandia, Parigi, la Valle della Loira. Personalmente escluderei la prospettiva di andare e tornare con la nave ma, anche così facendo, sarebbero troppi chilometri.
Troppi soldi. Troppo tempo”.
“Pensateci. A noi farebbe molto piacere”, replicò Luigi.
Ci abbiamo pensato.
Ci abbiamo pensato eccome.
Quella sera si sono silenziosamente avviati i misteriosi processi mentali che, nascondendosi all’ombra dell’illusione di pensare ad un progetto irrealizzabile, hanno messo insieme, poco per volta, tassello per tassello, un possibile itinerario.
Il viaggio prendeva forma…
Scartata l’idea di fare la stessa strada (e quindi di prendere il traghetto) sia per la partenza che per il rientro in Italia, ed invertito il senso di marcia inizialmente considerato, sono state esaminate le possibili tappe del viaggio: Svizzera, Parigi, Mont Saint Michel, Valle della Loira, Andorra e Barcellona.
Lo step successivo richiedeva la determinazione dell’itinerario per unire i vari punti individuati sulla cartina. Per il tratto fino alla Ville Lumiére sono stato aiutato da un servizio, relativo al percorso da Torino a Parigi, passando per Losanna, pubblicato su un numero di Due Ruote di qualche tempo fa. “Già, ma a Torino come ci si arriverebbe? Troppa autostrada.”
E qui c’è stato un vero e proprio colpo di genio: il treno.
Le F.S., difatti, offrono il servizio “moto al seguito”: la moto viaggia tranquilla e contenta sul vagone per il trasporto auto, mentre pilota e passeggero se ne stanno beati in cuccetta. Partenza la sera ed arrivo la mattina del giorno successivo; costi accettabili e risparmio di pedaggi, benzina, pernottamento, stanchezza…
“Se putess’ fa, se ne avessimo davvero l’intenzione”, dicevo ad Annalisa, cercando di cogliere nel suo sguardo qualche cenno di assenso, e nel malcelato tentativo di conservare intatti i nostri morigerati propositi, che andavano via via sgretolandosi. Il tragitto da Parigi a Mont Saint Michel si prestava eccellentemente ad una deviazione lungo la costa della Normandia, nel tratto dove si snodano le spiagge che sono state protagoniste del D-Day.
Magari con una tappa interlocutoria a Caen.
Il tour lungo la Valle della Loira avrebbe potuto avere come quartier generale la cittadina di Tours, situata in posizione strategica rispetto ai più rinomati castelli.
“Il percorso fino ad Andorra la Vella sarebbe troppo lungo da fare in una sola volta.
Andrebbe spezzato, magari in corrispondenza di questo puntino in mezzo al nulla. Il paese si chiama Cahors. Pare sia bello”, mi diceva Annalisa, puntando il dito sulla cartina dopo aver consultato l’impareggiabile Google e sollevando lo sguardo verso di me.
“La tappa da Andorra a Barcellona è breve; si potrebbe fare tutta d’un fiato. Peccato che abbiamo deciso di non muoverci, quest’anno”, replicavo io.
Ma era troppo tardi.
Il viaggio era pronto, ed il suo richiamo irresistibile.
Era nato il “QuattroStati2007” che, alla fine, con somma soddisfazione, ci ha portati a varcare quattro confini di Stato ed a percorrere poco meno di quattromila km in diciannove giorni.
Dopo aver deciso di lasciare a casa il giubbotto estivo e di partire con quello invernale (scelta in seguito rivelatasi determinante), il pomeriggio del 5 agosto – con le moto cariche sino all’inverosimile – i nostri quattro eroi si sono ritrovati sotto casa di Annalisa e, di là, hanno proseguito fino alla stazione di Napoli dove, in attesa che i “gioiellini” venissero caricati sul carro ferroviario adibito al trasporto delle autovetture, hanno conosciuto Cristiano e Rossana, una coppia di transalpanti napoletani che avevano avuto la stessa idea “ferroviaria”, anche se non avevano pianificato con precisione l’itinerario da seguire.
La notte trascorsa in cuccetta è stata qualcosa di allucinante: complici la tensione alle stelle (stavamo cominciando il viaggio tanto a lungo desiderato), il rumore ed i movimenti del treno sulle rotaie, Stefania che faceva l’appello dei dormienti ogni oretta ("Luì, stai dormendo? Luca e tu? Annalisa, tu sei sveglia, vero?") e gli incubi che ci assalivano ogni volta che ci assopivamo, quando siamo arrivati a Torino avevamo dormito ben poco.
“Ripescati” Cristiano e Rossana, con i quali eravamo rimasti d’accordo di condividere il viaggio sino a Losanna, dopo aver fatto colazione con tutta calma, ci siamo diretti verso l’area di ritiro dei veicoli al seguito.
Sul piazzale della stazione di Torino c’erano diverse persone che attendevano di ritirare la propria auto, una responsabile delle FS ed alcuni operai addetti allo scarico che imprecavano e si sbracciavano vistosamente: stavano TUTTI aspettando che noi scaricassimo le moto, le quali impedivano di svuotare il carro.
Dopo aver inutilmente cercato di far capire alla ferroviera che sul nostro biglietto era chiaramente indicato l’orario di inizio delle operazioni di scarico - e che quindi il nostro ritardo non era in realtà a noi imputabile - abbiamo finalmente avviato i motori e siamo partiti alla volta della Val d’Aosta; gran goduria di paesaggi e strade che ci hanno condotti sino al Passo del Gran San Bernardo (2474 mt s.l.m.) dove abbiamo fatto sosta pranzo/foto/cazzeggio in vista del confine con la Svizzera.
Appena varcati gli italici confini la velocità di percorrenza si è notevolmente ridotta e così, complici un’ape dispettosa che ha punto Luigi, ed una rotonda alla quale Cristiano ed il Barone hanno sbagliato uscita – con conseguente frattura del gruppo e pedissequa, interminabile, attesa mia e di Annalisa – siamo arrivati a Losanna con FAVOLOSO ritardo rispetto ai programmi originari. Scendiamo al graziosissimo Lausanne Guesthouse che, in barba ai carissimi prezzi degli alberghi svizzeri, ci ha offerto un ampio, confortevole ed accogliente soggiorno per circa 70 Euro a camera per notte, vista lago compresa. Cena a prezzi elvetici (buco in petto) e poi subito a nanna.
Il mattino successivo (07/08) lo abbiamo dedicato alla visita di Ginevra: grossa ed ordinatissima città sulle sponde dell’omonimo lago; tante, tantissime, banche, un bel centro storico con una imponente cattedrale e molti negozi con le vetrine piene zeppe di coltellini svizzeri di tutti i tipi; colazione/pranzo ad uno Starbuck Coffe (circa dieci Euro in due).
Nel pomeriggio, ritorno a Losanna e visita della città, anch’essa molto bella ma dalle strade troppo ripide per i miei gusti.
Anche qui abbiamo trovato una cattedrale che vale la pena di vedere.
Il dilemma relativo alla necessità di trovare il giusto compromesso tra una quantità di cibo sufficiente a sostenerci ed un costo tale da non prosciugare definitivamente i nostri conti correnti è stato risolto grazie ad un succulento Kebab, mangiato mentre eravamo intenti a scrutare il cielo che si faceva sempre più scuro. Considerato che il giorno successivo ci attendevano il “tappone” fino a Parigi (circa 600 Km, sulla carta) e la sveglia alle sei del mattino, decidiamo di caricare le moto prima di andare a letto; mentre preparavamo i bagagli il cielo diventava sempre più cupo sino al punto che, scesi nel parcheggio con le borse, ha cominciato a piovere.
Imbrachiamo i bagagli con le cuffie antipioggia ed andiamo a dormire sognando strade assolate e temperature tropicali.
La mattina seguente pioveva. Ma non una pioggia normale: una “megapioggia”, modello “Primavera 2006”. Nonostante le abbondanti precipitazioni ci mettiamo in marcia a passo spedito e, dopo circa quaranta chilometri, varchiamo il confine con la Francia; il tempo non migliora, ed anzi la temperatura scende abbastanza rapidamente sino al punto di rendere necessario il montaggio delle imbottiture nei giubbotti da moto (fiuuù… meno male che ho portato quello invernale!!!!)
Il paesaggio diventa sempre più dolce; le Alpi si allontanano e le poco trafficate statali (sulle quali procediamo a medie autostradali, nonostante la pioggia battente) tagliano letteralmente ampie pianure sulle quali riposano innumerevoli covoni di fieno lasciati a seccare; le rustiche case con i tetti aguzzi ricoperti di ardesia, il profumo della terra e dell’erba bagnati, il giallo dei campi di grano appena mietuto ed il verde dei prati formavano un tutt’uno che difficilmente dimenticherò. 

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Verso ora di colazione entriamo a Besançon (una graziosa cittadina medievale) dove facciamo una breve sosta condita con cioccolata calda e croissants.
Al momento di rimetterci in viaggio il GPS fa i capricci: non ne vuole sapere di accendersi.
Dopo qualche momento di panico, concludiamo che la nostra è, in fondo, principalmente un’avventura e quindi: no stress!!
Compriamo una cartina e decidiamo di proseguire alla vecchia maniera sino a Parigi. E vaffanculo al navigatore.
Appena prima di partire, però, Annalisa ha un’intuizione: “perché non provi a resettarlo?”.
Il maledetto dispositivo ricomincia a funzionare e, anche se nessuno ha avuto il coraggio di confessarlo, ci sentiamo tutti molto più tranquilli.
La pioggia ci ha concesso una breve tregua sino a Dijon, dove facciamo un’altra sosta e consumiamo il più tipico dei pasti francesi: una fragrante e profumata baguette, imbottita nella migliore tradizione nostrana.
Entriamo nella regione della Champagne accompagnati, ancora una volta, da un violento temporale che si placa solo poco dopo il nostro arrivo nella cittadina di Troyes, vecchio capoluogo della regione.
Luigi mi affianca ad un semaforo ed io gli faccio: “Luì, ma ti sei accorto che ha fatto due gocce d’acqua?” “Si che me ne sono accorto. Ognuna era grossa come il mar Mediterraneo!!!!).
Con questo spirito entriamo in un graziosissimo pub, prendiamo un paio di giri di caffè e fumiamo innumerevoli sigarette, consapevoli del fatto che abbiamo accumulato un bel vantaggio sulla tabella di marcia, che la meta è ormai a sole due o tre ore di viaggio e che pertanto possiamo permetterci il lusso di una sosta davvero riposante. Nel pub chiediamo notizie circa le attrazioni del posto al proprietario, Tony, che gentilmente si offre di farci da guida per una breve visita della cittadina.
Il centro storico di Troyes è qualcosa di veramente affascinante in quanto gli innumerevoli palazzotti che Tony ci mostra con evidente orgoglio sono delle vere e proprie opere d’arte in legno, malta e sterco di vacca; interamente realizzati a mano da abilissimi artigiani, essi vengono ristrutturati da cima a fondo ogni cinque/sei anni.
Tornati al pub, nei cui pressi avevamo lasciato le moto, i ragazzi del bar ci fanno trovare una stampata relativa alla situazione metereologica della giornata “Merda! Noi siamo sotto a tutto questo bianco?” penso, dinanzi al foglio di carta che mi viene passato e che viene colpito dalle prime gocce che, intanto, ricominciano a cadere.

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La sosta è stata più lunga del previsto e, salutato calorosamente Tony con la promessa di rendere il giusto merito in questo report al servizio resoci, filiamo via a passo allegro.
Mano a mano che si procede verso nord, la N60 incrocia più volte i canali che conducono alla Capitale, e sempre più frequenti sono i castelli che è possibile intravedere ai margini della strada.
La stanchezza comincia a farsi sentire ed io e Luigi, grazie ad una tregua concessaci dalla pioggia, sfruttiamo le ricetrasmittenti per fare la conta reciproca dei chilometri che mancano alla meta.
Imbocchiamo la N6, e poi la E15, vere e proprie autostrade senza pedaggio, e le percorriamo a passo spedito: ormai non ne possiamo più di stare in moto! Mentre, via radio, facciamo l'elenco dei doloretti e delle parti addormentate a causa delle vibrazioni delle nostre cavalcature, alzo lo sguardo e mi si forma un groppo alla gola; Luigi continua a parlarmi di culo indolenzito ma io non rispondo. Alzo solo una mano ad indicare qualcosa alla nostra sinistra.
“Eccola, Luigi. Guarda com’è bella. E’ la Torre Eiffel”. Superato un po’ di traffico (è la prima volta che troviamo una coda, dall’inizio del viaggio), il GPS ci conduce dritti dritti all’albergo.
Quando Annalisa e Steffola entrano per prendere le camere, Luigi ed io, completamente sfiniti, dopo aver contemplato i segni lasciati dall’acqua sulle nostre cerate e sulle moto, esclamiamo: “Ma ci pensi? Siamo arrivati a Parigi…”.
Abbiamo finito con l’abbracciarci, tanta era la commozione che ci ha colti in quel momento.
Scaricati i bagagli, non resistiamo alla tentazione di andare a vedere da vicino lo spettacolo della Torre completamente illuminata. Ovviamente, è inutile cercare di descrivere l’incanto che ci si è parato dinanzi mentre procedevamo, nel crepuscolo parigino, verso la nostra meta guidati dal nostro istinto (e dal navigatore, ovviamente!).
Una volta saziati gli occhi, non restava che da saziare le panze; l’ora di cena era ormai passata da un po’ e si imponeva una sosta riparatrice.
Quella sera abbiamo scoperto che gli orari dei locali “mangerecci”, a Parigi, sono tassativi: non abbiamo trovato nessuno disposto a venderci un boccone di baguette od un trancio di pizza. La nostra disperazione è rientrata solo quando abbiamo avvistato un night shop dove abbiamo comprato varie cibarie (tra cui un gustosissimo formaggio che ha poi avuto un insolito effetto lassativo sul povero Luigi) che abbiamo consumato seduti, al buio, su una panchina, nella migliore tradizione dei Clochards parigini.
La giornata del nove agosto è stata interamente dedicata alla scoperta della meravigliosa Parigi.
Grazie al navigatore abbiamo organizzato una “full immersion” che ci ha consentito di scoprire, con l’ausilio delle moto, le maggiori attrazioni della città: in mattinata Champs Elyses, Arco di Trionfo, Rue De Rivoli - con annesso acquisto di paccottiglia per turisti (le cose più strane che siamo riusciti a comprare sono stati una penna a sfera a forma di baguette e dei tamarrissimi adesivi brillantati) - , chiesa della Maddalena (con il superbo altare) e palazzo del Louvre; pranzo ai piedi di Notre Dame dalla quale, dopo la visita, siamo partiti alla volta del Pantheon. Il monumento è stato visitato, a pagamento, da Luigi e Stefania; Annalisa è riuscita, non so come, ad entrare senza pagare il biglietto mentre io, pigro, ho preferito schiacciare un sonnellino comodamente adagiato su una mastodontica colonna del colonnato esterno, rinunciando a vedere da vicino il celeberrimo pendolo...
La tappa successiva è stato il Sacro Cuore, situato sulla collina di Montmartre; visita al celebre quartiere con annessa cena a base di baguettes e crépe (ancora effetto lassativo per Luigi).
Giretto al quartiere Pialle e foto ricordo sotto al Moulin Rouge…

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Il dieci agosto abbiamo deciso di acculturarci con una bella visita al Louvre (mi raccomando: non comprate cibarie all’interno del museo. Prezzi da collasso!!!), dove abbiamo dato pieno sfogo al nostro estro fotografico e, nel pomeriggio, ci siamo concessi la scalata della Torre Eiffel (ovviamente in ascensore!).
Il pranzo è stato consumato in un MC Donald’s di uno dei quartieri più popolari di Parigi (ma tuttavia mi sono sentito più al sicuro di quando bazzico per il Corso Umberto), mentre la cena – la prima decente, dopo una serie innumerevole di baguettes - su un battello fluviale ormeggiato sulla riva gauche della Senna, ai piedi della Torre Eiffel.
Per finire in bellezza, giro serale sul Bateau Mouche (che, in realtà, per quanto è durato il giro, sembrava più un Bateau Velo?). Il tempo è stato discreto, anche se non sono mancati i soliti schizzi di pioggia.
Il Barone ha avuto qualche problema con l’antifurto della moto il quale, ogni volta che passavamo nei pressi della Torre, dava di matto e cominciava a suonare, talvolta addirittura provocando lo spegnimento del motore di Mimosa (ed obbligando Luigi a spingere… eh eh eh!!!). La tappa Parigi – Caen è stata una delle più tranquille dell’intero viaggio: sveglia con ESTREMO comodo ed andatura rilassata; l’unica balordata è stata l’idea di abbinare, dato l’orario, la colazione ed il pranzo. Quando siamo arrivati a Caen abbiamo avuto le energie appena necessarie a visitare il memoriale della Pace ed il Castello: giunti nel centro storico della graziosa cittadina, infatti, abbiamo più volte rischiato il collasso per la fame!!! Il dodici agosto ci aspettava il giro in Normandia, sino a Mont Saint Michel.
Le strade percorse, inutile dirlo, sono state meravigliose.
Ma la cosa che forse più di tutte mi ha colpito della Normandia e, in particolare, della zona nella quale si svolse il D-Day, è stata l’atmosfera che si respirava nei paeselli che abbiamo attraversato. A parte gli eccessi (ogni sorta di relitto bellico era un pretesto sufficiente alla erezione di un “museo”, con annesso biglietto d’ingresso; i cartelli che celebravano, in più d’un villaggio, il primato di “primo paese liberato della Francia”, ecc.), effettivamente sembrava che la guerra fosse finita da poco, pochissimo tempo. Abbiamo visto tutte e quattro le spiagge dello sbarco (Utah, Omaha, Juno e Gold), e tutte quante conservano traccia dell’inferno che lì si scatenò oltre 60 anni fa…

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Impressionanti le casematte tedesche collocate lungo la costa, con i cannoni spianati e dall’aspetto minaccioso.
La tappa più lunga l’abbiamo fatta a S. Mere Eglise, paesello reso celebre da un cult movie (chi non ha visto “Il giorno più lungo”?) che ha tramandato ai posteri la sfiga di tal John Steel che, paracadutatosi, rimase impigliato in una guglia della chiesetta del paese.
Il paracadute è ancora lì e, per ricordare l’accaduto, i paesani ci hanno appeso un manichino con tanto di uniforme completa – ed originale -.
Nella chiesa una vetrata commemora la pioggia di paracadutisti che si abbattè sulla cittadina e, ancora oggi, è possibile incrociare qualche tipo strampalato che se ne va in giro sulle celeberrime Jeep americane, con tanto di uniforme, elmetto ed occhialoni! 

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Il pranzo, consumato di fronte alla chiesetta, a base di montone, sidro ed altre prelibatezze locali, ha visto lo scatenarsi di un ulteriore, ennesimo, temporale…
A causa del tempo rinunciamo a percorrere il restante tratto di costa e puntiamo dritti, “ripiegando” verso l’interno, su Mont Saint Michel dove arriviamo alle 18:15, giusto in tempo per vedere il fenomeno della marea.
Già!
Se solo un addetto al parcheggio si fosse fatto i cazzi suoi e non ci avesse detto che si sarebbe verificata molto più tardi.
La cena, a base di crostacei e formaggi francesi, l’abbiamo consumata in un bellissimo ristorante incastonato tra le caratteristiche viuzze del celebre istmo, con tanto di terrazza panoramica.
Che botta di vita!!!
Il giorno successivo, per accontentare la “pressante” esigenza di vedere la marea mattutina a tutti i costi, siamo in piedi alle sei e mezza e così ci godiamo lo spettacolo in tutta solitudine (mica tutti tanto fessi!!!), illuminato dalla più bella alba che io abbia mai visto (ma avrò poi visto qualche altra alba???).

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In seguito ci dirigiamo verso Saint Malo (celebre per il suo passato di città corsara e per le battaglie che vi si combatterono nel giugno del 1944), dove consumiamo uno spettacolare Plateau Royale.
Tutti tranne Steffola, che ha preferito una sobria insalatina.
Il piatto citato merita una trattazione a parte: composto da aragosta, granchio fellone, ostriche, lumache di mare, vongole, cicale di mare, gamberoni e gamberetti, servita su un mastodontico piatto corredato da strani attrezzi che facevano sembrare la mensa imbandita un tavolo operatorio.

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Semplicemente superbo: quando Luigi ne ha avuto a sazietà, io ancora ingaggiavo una lotta impari con le chele del granchio, mimando alcune scene dei pasti di Bud Spencer e Terence Hill.
Nessuno si è sporcato, tranne Stefania, nonostante la sua innocua insalatina…
Giusto il tempo di riprenderci dagli eccessi alimentari e siamo di nuovo in sella alla volta di Mont Saint Michel;
evitiamo l’incantevole strada costiera (non sia mai ci perdiamo la marea serale!!!) e, pagato il (salato) biglietto d’ingresso alla cattedrale – della quale, ansimando, percorriamo a tutta velocità una buona parte (“Presto, che tra poco c’è la marea!!! Qui ci torniamo dopo”) -, ci sistemiamo in posizione strategica per ammirare il balletto dell’oceano che, nel giro di un’oretta, riprende possesso della sterminata distesa che la terra non riesce mai a conquistare definitivamente.
Scendiamo dalla cattedrale (della quale ci è stato impedito di visitare le sale dapprima ignorate) e, fatti quattro conti, decidiamo di cenare, ancora una volta, a base di baguettes…
Rientro in albergo (alquanto squalliduccio) e nanna ristoratrice.
La mattina del 14 agosto ci muoviamo alla volta di Tours, sulla Valle della Loira.
Il viaggio è molto tranquillo; l’itinerario si snoda attraverso la dolce campagna francese, caratterizzata da immensi prati alternati a campi di grano sui quali sono i soliti covoni di grano.
Il vento è forte, ma la pioggia ci ha concesso una breve sosta, almeno sino alle porte della città.
L’albergo prenotato (Hotel L’Adresse) è graziosissimo ed è situato nell’isola pedonale dell’altrettanto grazioso centro di Tours.
Dopo aver pianificato l’itinerario del giorno successivo andiamo a cena e poi, dato che l’aria è freschina e che ogni tanto pioviggina, andiamo a letto abbastanza presto.
La mattina di ferragosto ci muoviamo, sotto la pioggia, verso ovest; breve tappa a Chinon – che ancora conserva tracce del passaggio di Giovanna D’Arco -, visita del fiabesco castello di Ussè (solo le ragazze; Luigi ed io, influenzati dal cattivo tempo, preferiamo restare a cazzeggiare nei paraggi) e poi sosta ad Azay Le Rideau, nei pressi dell’omonimo castello (che guardiamo solo da fuori) dove restiamo a mangiare, manco a dirlo, un’altra bella baguette.

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Per di più sotto la pensilina di un Bancomat, per ripararci dalla pioggia!
Dopo pranzo il tempo migliora e ci dirigiamo verso il castello di Chenonceau l’unico che, forse, vale davvero la pena di visitare. Facciamo partito con altre due coppie di motociclisti italiani – ai quali facciamo evitare buona parte della fila per l’ingresso – e, noleggiata una barchetta, ci godiamo la vista del suggestivo castello dalle limpide e serene acque dell’Indre…sin tanto che non ricomincia a piovere violentemente, forse a causa di Luigi che, messosi ai remi, intona senza sosta (e senza successo) “Piscatore do mare ‘e Pusillepo…”.
Tornati a Tours consumiamo il nostro abbondante Kebab e ce ne andiamo a letto dopo un breve giro in centro.
La situazione ricambi, dopo tanti giorni di viaggio e, soprattutto, di pioggia, si stava facendo drammatica.
Dopo aver rivoltato più volte i calzini sporchi per conferire loro una parvenza di pulizia, sfruttiamo l’occasione offertaci dal giorno successivo, il primo di vero sole, per portare la biancheria in una americanissima lavanderia a gettoni dove, però, un paio di pedalini di Stefania subisce una sinistra metamorfosi…
Ripresici dallo choch provocato dall’orrenda visione, partiamo alla volta di Chambord per la visita dell’omonimo castello, facendo una breve sosta lungo le sponde del fiume (la Loira? L’Indre? Bo?) che costeggia la bellissima Amboise.
Il pranzo, forse il peggiore della mia vita (a base di pasticcio di carne freddo e Coca Cola pezzottata e scaduta) lo consumiamo in un giardinetto adiacente ad un centro commerciale (dove Stefania rischia la morte perché fa inavvertitamente cadere a terra il casco di Luigino… misteri dell’amore!!!) sulla strada del ritorno verso Tours.
Lungo la strada approfittiamo di un tiepido sole e ci concediamo una sosta caffè (birra, per i più audaci) nella bella Blois (lo sapevate che ci è morto Leonardo Da Vinci?? Ignoranti!!!).
Breve giro serale di Tours, con constatazione degli strabilianti prezzi dei coni gelato, e rientro in albergo. Il giorno successivo percorriamo i circa 400 Km che ci separano da Cahors con un paio di soste caffè per riprenderci dal freddo pungente.
Attraversiamo parecchi paeselli quasi deserti.
Pranzo al Mc Donald’s, breve visita della cittadina, rivelatasi abbastanza insignificante (fatta eccezione per il ponte Velandrì, simbolo della città e candidato alla nomina di patrimonio dell’UNESCO).
Celebriamo la nostra ultima cena in terra di Francia con delle buonissime crépes.
La mattina del 18 agosto, avendo deciso di passare per Carcassonne, e quindi di allungare l’itinerario fino ad Andorra di un centinaio di Km, ci mettiamo in marcia di buon’ora.
Facciamo colazione in una boulangerie che, oltre ad offrire deliziosi dolci e pani di tutti i tipi, ha installata una macchinetta per bevande calde (caffè, cappuccini, ecc.). Purtroppo, però, l’incanto dura poco: giusto il tempo di un paio di caffè perché il prode Barone pensa bene che l’aggeggio è troppo utile lì dove si trova e, forzandoci dentro la moneta più grossa che aveva in tasca, lo blocca definitivamente.
Ci fermiamo fuori della Boulangerie a consumare i dolci acquistati, e ad un tratto veniamo interpellati da una commessa la quale, in francese, ci chiede: “Siete voi che avete messo una moneta da due euro nella macchinetta, facendola così bloccare???”.
Mentre il volto di Luigi assume tutte le possibili varianti cromatiche che passano dal rosso al bianco, notiamo che la tizia ci porge la moneta da due euro recuperata dalla macchinetta (peraltro ancora bloccata). Che paese!
Ci rimettiamo in marcia e, a metà mattinata, arriviamo alla meta designata.
Carcassonne è una tipica città medievale (anche se è stata più e più volte ricostruita, anche in tempi recenti): bastioni, merli, doppia cinta muraria, ponti levatoi ed altre amenità del genere, passata alla storia grazie all’espediente con il quale i suoi abitanti sventarono l’assedio al quale erano stati sottoposti per lungo tempo. Pare infatti che, allo stremo delle forze, presero l’ultimo maiale presente in città e lo gettarono oltre le mura, facendone dono agli assedianti, mettendosi a fare baldoria subito dopo. Gli assedianti, a loro volta stremati dal lungo assedio, credettero che le risorse della città fossero ancora notevoli e così levarono le tende e se ne tornarono a casuccia loro con le pive nel sacco…
Il pranzo lo abbiamo consumato, in direzione di Andorra, ai piedi dei Pirenei che, vi assicuro, ci hanno offerto un paesaggio spettacolare. Il confine tra la Francia ed il Principato si trova sul Pas de La Casa, ad una altitudine che, seppur notevole, abbiamo reputato assai inferiore a quella del Gran San Bernardo.
Altra rimarchevole differenza è che, mentre il passo che segna gli italici confini è stato attrezzato con numerosissimi chioschetti che vendono ogni tipo di ciarpame per turisti (dagli adesivi da appiccicare sul lunotto dell’auto, a giganteschi cani San Bernardo di peluche) e ristorantini vari, il passo da noi valicato era letteralmente deserto; non c’era neppure la stazione della dogana (situata solo qualche chilometro più all’interno).
Soltanto il cartello con l’indicazione “Confine di Stato”.
In uscita dal principato c’era una lunga coda di auto e pulman; il traffico in entrata, invece, era molto scorrevole, soprattutto in considerazione del fatto che i veicoli in ingresso nel principato non venivano sottoposti a nessun tipo di controllo.
Il primo centro che si incontra, provenendo dalla Francia con la E09, è Canillo: nient’altro che una miriade di supernegozi ammassati a destra e sinistra della N22: abbastanza squallido, anche se il paesaggio circostante merita davvero.
Proseguendo in direzione della Capitale abbiamo attraversato l’incantevole Encamp, con le bellissime case dall’aspetto tipicamente montano, che si inseriscono alla perfezione nel superbo contesto naturale che le circonda.
Sempre con un’occhio ai numerosissimi distributori di carburante che incrociavamo (il prezzo della benzina superava di pochi centesimi l’euro), abbiamo gustato a fondo (ed a manetta) i numerosi tornanti che la strada offriva, badando bene di avvistare con il necessario anticipo i branchi di cavalli o di mucche che sovente attraversavano la strada con gran disappunto degli automobilisti. Nel tardo pomeriggio siamo arrivati ad Andorra La Vella e, da subito, ci siamo resi conto che sarebbe stato molto arduo ritrovare lo spettacolare paesaggio ammirato nell’attraversare il piccolo centro di Encamp: la Capitale è una città vera e propria, con tanti semafori, incroci, sensi unici e variopinti (quanto inflessibili) agenti addetti alla regolamentazione del traffico.
Dopo aver superato (senza poter tornare indietro) l’albergo, ci fermiamo a dare un’occhiata ad un negozio di moto i cui prezzi, tuttavia, non ci entusiasmano affatto; dopo un paio di giri a vuoto, riusciamo finalmente a parcheggiare sotto l’albergo, che scopriamo essere superlativo.
Le strade della città erano letteralmente invase da una torma di turisti che si affannavano a comprare tutto ciò che gli astuti negozianti proponevano alla vendita: (a prezzi davvero stracciati); le tante insegne luminose e le lampade ad incandescenza delle vetrine, che si succedevano l’una all’altra senza soluzione di continuità, contribuivano ad aumentare la sensazione di euforia che pervadeva lo sciame umano dedito allo shopping sfrenato.
Anche noi abbiamo finito con l’essere contagiati dall’atmosfera e, superati a piè pari l’impatto iniziale ed il proposito di acquistare solo dopo aver controllato con attenzione l’effettiva convenienza dei prezzi, ci siamo gettati in tutti i negozi che ci capitavano a tiro.
Solo che non riuscivamo a comprare nulla: le nostre carte bancarie, infatti, nessuno le voleva. All’inizio c’è stato solo un po’ di disappunto che però, ben presto, si è trasformato in vero panico: Luigi e Stefania erano senza contante del tutto, ed io ed Annalisa ne avevamo pochino. Soltanto dopo un lungo peregrinare abbiamo trovato uno sportello automatico che, forse per pietà, ha elargito a Stefania poche centinaia di Euro.
Ad Andorra tutti i negozi vendono di tutto: dai biscotti per neonati ai televisori al plasma; le sigarette venivano esposte in balle intere e, sovente, all’acquisto di un determinato numero di stecche era accompagnato un omaggio (tre stecche di sigarette? Un frullatore in regalo!); accanto alla vetrina dei gioielli venivano esposti gli infradito per andare al mare… UN VERO CASINO!!!
Buona parte della nostra passeggiata “esplorativa” (rimasta tale a causa delle ristrettezze economiche nelle quali, nostro malgrado, eravamo sprofondati) è stata dedicata alla ricerca di negozi di abbigliamento ed accessori per motociclisti.
Chiedevamo a tutti gli indigeni e tutti, puntualmente, ci rispondevano: “Di là, a poche centinaia di metri”. Quando, ormai stufi di girare a vuoto, stavamo valutando di tornare indietro verso l’albergo, la meraviglia: circa tre chilometri di strada interamente costeggiata, da entrambi i lati, di negozi di articoli per motociclisti. Approssimandosi l’orario di chiusura abbiamo dovuto rinunciare a visitarli tutti, rimandando all’indomani i nostri spenderecci propositi.
Il giorno successivo abbiamo fatto il punto della situazione: contando sul poco contante rimastoci, rimpinguato dagli esigui prelievi concessi alla Carta di Stefania, avremmo potuto comunque comprare qualcosina e quindi: fuoco alle polveri!!!
I miei acquisti sono stati limitati ad un paio di stivali da moto, un pantalone tecnico estivo, una scheda di memoria ed un filtro UV per la macchina fotografica; Luigi ha comprato una collana a Stefania e lei ha ricambiato il pensiero regalando a lui il TTR. 
Annalisa, su mia insistenza, ha comprato solo un paio di stivali da moto per sé.
Dopo pranzo abbiamo visitato la caratteristica Ondino (solo cento abitanti in tutto!!) dalla quale, tuttavia, siamo dovuti letteralmente scappare a causa di un improvviso, quanto violento, temporale. Il pomeriggio lo abbiamo trascorso ad installare (molto ingegnosamente, devo ammettere) il Tom Tom sulla moto di Luigi.
Per cena, al fine di onorare la frizzante temperatura pirenaica, ci siamo concessi una abbondantissima, e piacevolmente calda, fonduta di formaggio; ci siamo alzati da tavola solo quando non ne potevamo più. La mattina del 20 agosto, come da programma, ci attendeva l’ultima tappa del nostro viaggio itinerante: Barcellona.
Abbiamo lasciato l’albergo con estrema calma, e non ci siamo avviati prima di un’ultima seduta di shopping per consentire a Stefania l’acquisto (assai travagliato, in verità: i contanti erano finiti ed anche la sua carta ha smesso di funzionare del tutto) di un giubbotto da moto.
Anche stavolta, varcare la frontiera è stata un’operazione indolore: mentre le macchine ed i pullman venivano minuziosamente controllati dagli addetti alla dogana (con le code e le attese che ne conseguivano), le moto sfilavano via indisturbate, godendo di una vera e propria corsia preferenziale.
Il versante spagnolo dei Pirenei offre, al motociclante che non abbia velleità pistaiole, paesaggi davvero unici: la strada è letteralmente incastonata nella roccia la quale assume varie tonalità dal giallo ocra al grigio scuro; tale gamma cromatica contrastava fortemente con l’azzurro del cielo limpido, il verde intenso dell’erba ed il blu cobalto di bellissimi laghi… Lasciatici alle spalle le montagne, il tempo si è via via rischiarato e la temperatura ha cominciato a farci ricordare che ad agosto, in genere, fa caldo.
Abbiamo pranzato finalmente a soddisfazione, spendendo una vera miseria, in un piccolo paese a circa trecento chilometri dalla meta; ci siamo goduti un piacevole dopo pranzo, ed io mi sono divertito a stressare Stefania con false notizie circa presunte macchie sul suo giubbotto nuovo.
“Stefà, non alzare troppo il braccio, che ti si strappa il giubbotto”!
“Umpf!” replicava lei.
“E a te si strappa il pantalone nuovo!”
Barcellona, dopo una tappa per la benzina, è stata raggiunta verso le cinque del pomeriggio.
La differenza con la Francia era chiaramente avvertibile; a parte l’atteggiamento delle persone – decisamente più “caldo” – anche le strade, e la condotta di guida degli automobilisti, hanno sottolineato il fatto che ci trovassimo in un paese mediterraneo: niente più rotonde disegnate con il compasso, molti più incroci e semafori, più rumori di clacson, più traffico, niente più automobilisti che si fanno a destra sino al punto di uscire fuori strada per far passare i motociclisti.
Insomma: niente più segnali stradali che invitano a rispettare le due ruote.
Appena messe le ruote nella città di Barcellona, ci hanno colpito le ampie strade, le corsie riservate ai tram coperte d’erba e, qua e là, i caratteristici palazzi che portano, inconfondibile, la firma di Gaudì.
Le strade principali di Barcellona sono tre, la Avinguida Diagonal, la Paral Lel (rispettivamente poste in diagonale ed in parallelo con ) la Gran Via, ed è proprio la Gran Via che imbocchiamo, alla ricerca del nostro albergo.
Strade larghe, come dicevo, intervallate da frequenti semafori, e quindi una serie pressoché infinita di Stop e Go.
Ad un tratto perdo Luigi (da quando siamo partiti da Andorra guida lui la carovana, sfruttando il GPS nuovo nuovo), e quindi con un occhio lo cerco davanti a me e con l’altro tento di individuare l’albergo lungo la lunghissima e larghissima Gran Via.
Stop e Go, Stop e Go, Stop e Go “ma dove sarà finito Luigi?”
Stop e Go, Stop e Go, Stop e Go “ma dove sarà l’albergo?” Stop e Go, Stop e Go, Stop e Go “vado dritto o giro a sinistra?”
SKKKRIEEEEEKKKKKKKKKK……. BWAAAAAMMMMMM!!!!!!!!!!
Ho avuto, netta, la sensazione di volare e, prima di chiudere gli occhi, ho visto che, intorno a me, tutto ruotava vertiginosamente.
Rialzatomi, mi sono guardato intorno per cercare di capire cosa fosse successo; dietro di me c’era un’auto con il muso completamente fracassato e, voltatomi, la terrificante visione: lei era a terra, stesa su un lato.
Mi sono subito sfilato il casco e l’ho soccorsa; era immobile, rantolava, la sentivo respirare. Con l’aiuto di alcune persone è stata rimessa “in piedi” e mi sono accertato del fatto che non si fosse fatta nulla di grave.
Quindi, ho spento il quadro.
Luna era ancora viva!!! Anche Annalisa stava benone.
Ero stato tamponato da una stronza che, per quanto correva, ha lasciato una sgommata sull’asfalto di circa quindici metri; la moto, dopo aver fatto un bel volo, è strisciata parecchio ed è rimasta praticamente incolume solo grazie al miracoloso paracarene, i cui tubi sono diventati piatti per quanto si sono consumati a causa dell’attrito con il selciato.
E’ stata chiamata la Polizia che si è limitata a raccogliere le generalità dei conducenti i due veicoli.
Luigi, nel frattempo chiamato da Annalisa con la ricetrasmittente, è sbucato dalla mattonella sotto la quale si era nascosto.
Appena superato lo choc, ho cominciato la “conta” dei danni: pedalino passeggero spezzato; freccia posteriore abbozzata; bauletto pressoché distrutto; borsa laterale strappata, paracarene “mangiucchiato” dall’asfalto, staffe dei pedalini, da entrambi i lati, vistosamente ammaccate verso l’interno, scocchetta laterale con un paio di piccoli spacchi… mi bruciava forte il culo.
Annalisa, complici gli stivali (rimasti intatti), a parte delle escoriazioni sulla schiena, accusava solo un certo dolorino ad un tallone, ma nulla di importante… sarebbe potuta andare molto peggio.
Al solo pensiero che tutto era dipeso da quella stronza… mi bruciava forte il culo! “Chissà quanto costano le staffe dei pedalini… appena in patria compro un paracarene nuovo… la freccia si raddrizza facilmente… cazzo la scocca!! Non c’era neanche un graffio, e adesso guarda com’è ridotta. Cambierò anche questa. Il bauletto è senz’altro da cambiare; costerà minimo 150 Euro… come mi brucia il culo!!”
Cazzo se mi bruciava il culo!
Il pantalone comprato il giorno prima, evidentemente evitandomi qualcosa di molto peggio, aveva ceduto all’altezza della natica, dove mi sono procurato una estesa ustione che ha continuato a darmi fastidio per diversi giorni.
Mi è tornato in mente il presagio di Steffola di qualche ora prima: “Umpf! E a te si strappa il pantalone nuovo!”.
Siamo arrivati all’albergo (extralusso) molto tardi, tutti rattoppati, stanchi, stonati e sudati; Annalisa era ancora terrorizzata, ed io terrorizzato e di pessimo umore.
Dopo una doccia ristoratrice, e qualche oretta di riposo, siamo usciti per andare a cena; abbiamo trovato un delizioso localetto dove, grazie alla birra ed alla sangria con le quali ho innaffiato la stupenda paella servitaci, mi sono sforzato (non so con quale risultato) di non far pesare sui miei impagabili compagni di viaggio le nubi che avevano irrimediabilmente offuscato il fulgore della mia vacanza.
Trascorro una notte agitata, dormo poco e male. Il mattino seguente, alle nove come d’accordo, busso alla porta della stanza di Luigi e Stefania e subito il buon Barone ne esce completamente vestito (anche se vistosamente assonnato) per accompagnarmi alla ricerca di un meccanico capace di rimediare al disastro.
Giriamo un po’, raccogliendo informazioni ed indirizzi qua e là (cosa assurda: un concessionario ufficialmente chiuso per ferie, telefona personalmente ad una altro concessionario per sapere se la sua officina è aperta) ed alla fine riusciamo ad affidare Luna alle cure di un mecca molto simpatico che, tuttavia, non promette nulla nonostante gli faccia chiaramente capire che “non bado a spese”.
Torniamo in albergo e, a piedi, cominciamo il giro della città. Visitiamo le caratteristiche ed affollatissime Ramblas (dove siamo spettatori di uno scippo), andiamo alla Cattedrale (nascosta alla vista in quanto paludata sotto gli immensi tendoni che nascondono i restauri in corso) e pranziamo con le tipiche “Tapas”, microscopici stuzzichini pagati a prezzi favolosi.
Il mio umore non migliora, e divento insofferente a tutto: al sole, all’ombra, al caldo, al vento, alla folla, alle strade vuote… penso alla mia motina che è dal dottore!!
Decidiamo di tornare in Hotel, dove restiamo a sonnecchiare fino a circa le sei del pomeriggio, orario fissato con il Barone per andare a ritirare Luna dal meccanico.
All’atto del ritiro per poco non ho gridato al miracolo: era stato sistemato tutto il sistemabile che non comportasse la sostituzione di pezzi: il pedalino spezzato è stato smontato, saldato, e rimontato; le piastre sono state eccellentemente raddrizzate, e mi hanno persino verniciato il paracarene!!! Esco raggiante dall’officina e, appena avvistato un negozio di abbigliamento per moto, mi ci fiondo dentro alla ricerca di un bauletto nuovo o, almeno, dei pezzi necessari a riparare quello vecchio, tirandomi dietro l’inestimabile Luigi.
I pezzi di ricambio, ovviamente, non erano disponibili ed il bauletto nuovo costava uno sproposito, rispetto all’Italia; non mi scoraggio, e cerco qualcos’altro da comprare. Curiosando tra gli scaffali adocchio dei bellissimi pantaloni da moto estivi. “E’ proprio quello che ci vuole per dare un calcio in culo alla mala sorte”, penso.
Lo misuro, lo pago e me lo faccio imbustare, mentre sfoggio alla simpatica commessa un sorriso a trentadue denti, senz’altro esagerato rispetto alla sola gioia di aver comprato un pantalone da moto. Anche Luigi si è dato da fare: ha trovato una meravigliosa visiera da applicare al suo casco nuovo, che così ha assunto un aspetto ancora più malandrino.
Torniamo in albergo alla chetichella, a causa del forte temporale che nel frattempo si è scatenato e, nelle vicinanze, andiamo a consumare una cena molto meno saporita di quella della sera precedente ma che, chissà perché, io gusto molto di più…
La pioggia accompagna il nostro risveglio del 22 agosto, ma non ci perdiamo d’animo: compriamo un biglietto giornaliero per i mezzi pubblici e continuiamo la scoperta di Barcellona. Con la metro raggiungiamo la zona dell’università dove ci concediamo una lauta colazione e poi dritti filati alla Sagrada Famiglia, l’Opera incompleta di Gaudì.
Il monumento, ovviamente, è eccezionale.
Anzi, la definizione più appropriata è “pazzesco”, sia per dimensioni che per forme; peccato che i lavori, ancora in corso, guastino il colpo d’occhio complessivo.
Ci fermiamo ai numerosi negozietti di souvenirs presenti nelle vicinanze e, dopo aver lasciato lì un po’ di soldi, ci dirigiamo verso il Parc Guell. Anche in questa specie di “Villa Comunale” si leggono, inconfondibili, i tratti dell’artista; l’architettura è davvero pazzesca ed ogni angolo, persino il più remoto, nasconde sorprese inimmaginabili.

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Benché la strada percorsa per arrivarci sia stata un vero e proprio calvario (non ricordo di aver mai percorso una salita tanto ripida), la fatica è stata ampiamente ripagata; breve fotososta alla celeberrima fontana del drago e poi rientro, esausti, in albergo verso le sei del pomeriggio. Dopo un breve riposino prendiamo le moto e andiamo a Barcelloneta, in riva al mare, dove restiamo a cenare, ovviamente a base di Paella.
L’alba del 23 agosto segna la fine del nostro soggiorno in terra di Spagna: ci alziamo con comodo, carichiamo le moto e, fedeli ad una tradizione inaugurata l’anno scorso in Sardegna, saliamo sul colle più alto dei dintorni a salutare la città.
Per pranzo, ancora una volta a base di paella, torniamo al ristorante dove abbiamo cenato la prima sera e poi, a pochi minuti dall’orario fissato per l’imbarco, ci addentriamo nei vicoletti adiacenti Barcelloneta alla disperata ricerca degli ultimi souvenir con i quali ingombrare gli scaffali di qualche ignaro, ed incolpevole, conoscente. Caricate le moto sulla nave, che si rivela molto bella e confortevole, Luigi inaugura la cabina con una seduta di gabinetto.
Scrocchiamo un drink gentilmente offertoci dall’equipaggio – in virtù di una conoscenza del buon Luigi – e facciamo visita al Casinò di bordo dove il Barone sfoggia una robusta dose di fortuna, vincendo oltre 50 Euro alle macchinette mangiasoldi. Il giorno dopo ci aspettavano il tragitto Civitavecchia – Napoli (forse, a causa del caldo opprimente al quale non eravamo più abituati, il tratto più faticoso di tutto il viaggio) e, immancabile, la fine delle vacanze.
Ma questo sarebbe accaduto solo il giorno dopo.
Preferisco invece ricordare mentre, cullati dalle onde, riandiamo con la mente agli episodi che tanto ci hanno fatto ridere, penare, emozionare o persino soffrire, nel corso della nostra stupenda avventura. Scelgo di terminare il mio report ripensando al meraviglioso tramonto ammirato dal ponte della nave quando, guardandoci negli occhi, vi abbiamo letto la promessa, e la decisione, di intraprendere un altra, più lunga, avventura…

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