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Libia 2008 - Federico Bortolotti

Autore: Federico Bortolotti alias 'Bostro'
Periodo: 13 – 27 dicembre 2008
Partecipanti: Federico Bortolotti su Honda Transalp XL650V 2005

Estratto dal racconto del Bostro: la versione integrale con altre foto su www.bostro.net

MERCOLEDÌ 17 DICEMBRE

Usciamo dall'asfalto salutandolo senza troppe cerimonie e cominciamo a correre in un territorio che sembra piatto ma non è piatto, che sembra compatto ma non è compatto, che davanti – dietro – a destra – a sinistra non ha assolutamente niente. Pare continuare per 10 km come per 1.000, non hai punti di riferimento, le nuvole coprono il sole e rendono uniforme persino il cielo. E' praticamente impossibile andare dritti, ci proviamo ma dopo pochi minuti ci accorgiamo che siamo lontani l'uno dall'altro parecchi metri. Le guide seguono dei segnali per me quasi invisibili: un copertone, un rametto, dei sassi in pila. Comincio a prendere confidenza con la Transalp ed accelero, lei comincia a galleggiare sul terreno, un po' di peso sulla pedalina ed un filo di gas di più e con una simpatica derapata lei vira. E' bellissimo, è libertà pura, non è un'esperienza, è quasi un concetto. 

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Ogni tanto i ciuffi di piante aumentano, a tratti diminuiscono. Ad un certo punto c'è un area piena, che da sinistra corre verso destra fino all'orizzonte; anzi, visto che sono in un paese arabo, forse devo dire che corre da destra a sinistra! Bo, comunque è una lunga striscia, che i fuoristrada cominciano ad attraversare. Come entro nella loro scia scopro una cosa che i giorni seguenti mi farà dannare: la mancanza di una gomma buona all'anteriore è ancora più terribile quando entro nelle scie delle gomme delle auto, che spaccano letteralmente la superficie della sabbia e diventa ancora più soffice. In mezzo a questo terreno ci fermiamo per la pausa pranzo. 

Lontane, oltre la foschia, sempre le dune si stendono sull'orizzonte da parte a parte. 
Mangiamo seduti per terra, tra le sabbie di un luogo incantato. 
Ripartiamo: l'atmosfera si è un po' schiarita, usciamo dalle sabbie mobili dello Wadi e ci dirigiamo, con nostra emozione, proprio verso le dune che ora sono più chiare e si stagliano nette dall'orizzonte verso il cielo. L'erg dunoso comincia così, di colpo, è un mare vero e proprio, con una costa, un litorale, e delle immense onde pietrificate da una forza troppo potente per essere compresa. 
Il terreno comincia a farsi terribilmente ondulato. Ricordo la raccomandazione di Assan Sharif: “Vitesse c'est dangereux”, e comincio a comprenderne il vero significato. Nel deserto nulla è come sembra, il miraggio classico, quello che siamo abituati ad immaginare, l'oasi con un bar dove non c'è nulla, in realtà è solo l'ultimo trucco del Sahara per fregarti: il primo è proprio sconvolgere la tua visione tridimensionale. Tempo e spazio sono andati a farsi benedire, soggettivismo, oggettivismo, realismo, il deserto ha distrutto tutto. E' un'esperienza magnifica. 
Il vento è fortissimo, saliamo a piedi sulla duna per vedere il panorama, e ciò che ci si offre agli occhi è di una desolazione magnifica. 
Mi fermo ad osservare la cresta della duna, perfetta nella sua cristallina forma, una linea sinuosa che finisce in un granello, a fronte dei milioni che ne formano la base. La osservo a lungo, prima che i nostri passi dissacranti la distruggano, comunque temporaneamente. Questo forte vento annienterà le nostre tracce in pochi secondi. 
Jo prende la sua tavola da snowboard e cammina fino in cima, quindi prova la sua prima discesa, la prima di molte successive. 
Passata la frenesia, scendiamo dalla duna, i capelli sconvolti per il vento, gli occhi rossi, e saliamo sulle moto per tentarne la scalata. A me sembra troppo ripida per la mia moto, ma la sabbia non è poi così molle; anzi, è quasi compatta su questo versante. Quasi... Mighe sale e quasi rovina dal versante opposto, Fiky gli arriva a fianco, Cielo si pianta sempre in cima, io arrivo fino in cima e mi fermo a mia volta perché oltre loro non c'è più spazio. Ce l'ho fatta, la prima duna è andata! Ma ora bisogna scendere. Comincio a girare il manubrio a destra e sinistra, come consigliato da Mario, peso a monte, per disincagliare la moto; che infatti si gira piano, cominciando a puntare verso il basso. Ed a questo punto, da questa angolazione, mi rendo conto che la discesa è ripidissima, ma ormai sono a cavallo e devo cavalcare: ingrano la seconda, punto il muso al suolo, accelero e mi siedo praticamente sul portapacchi, dando gas quando sento l'anteriore affondare troppo e lavorando leggermente sul freno posteriore per trasferire peso dietro. In pochi secondi sono a terra. Ora, ripensandoci, guardando le foto, mi viene quasi da ridere alla paura provocata di fronte a quella dunetta, pensando a cosa avremo attraversato in seguito! 
Scesi, gli altri sono già in marcia, si passa un piccolo avvallamento e si fa un'altra discesa sospetta. Ricominciamo a correre per un terreno più piatto, attraversiamo nuovamente lo Wadi che aveva visto, più lontano, il nostro primo pranzo "sabbioso", e ci immettiamo in una pista tra ciottoli di roccia veramente mozzafiato: sale e scende leggermente, tutta curve, il fondo di sabbia indurito da alcuni sdrucciolevoli sassi. La adoro: culo indietro, lavorando di gran gas a marce basse e giri allegri, la fai in gran velocità con qualche saltino e qualche impennata che è un piacere.
La strada continua così per parecchi chilometri, poi una curva, una discesa, passiamo davanti ad una capanna abitata da un solitario Tuareg in mezzo a chilometri e chilometri di nulla, una curva, e scendiamo - come segnalato da un cartello - nel celebre Wadi Mektandoush la cui sabbia è terribile. Io faccio qualche metro e mi insabbio, lasciando lì la moto, Michele prova a fare qualche metro di più ma si insabbia a sua volta; anche i due leggeri TTE hanno i loro benemeriti cazzi! Si fa sera. Questo sarà il nostro campo. Fa già ben freddo, e subito il pensiero mi corre al sacco a pelo invernale lasciato a casa... Ma non penso molto, poiché in questo Wadi avrò per la prima volta visione di antichi graffiti, alcuni risalenti anche a 12.000 anni fa. Mi avvio con una sigaretta corroborante tra le labbra verso dei cammelli che pascolano liberi lì vicino, quando mi chiamano dalle rocce: è pieno di graffiti! Mi precipito verso la parete rocciosa attraversando lo Wadi, e rimango incantato di fronte all'incisione di una giraffa. La osservo, ne sfioro timoroso la superficie, passo il dito per un secondo tra i tratti profondi anche mezzo centimetro, e di colpo mi rendo conto di cosa sto guardando: testimonianze che emergono dagli abissi del tempo di popoli che non ci sono più, che vivevano in un posto che non può essere questo. Elefanti, giraffe, mufloni, persino rinoceronti, e in alto Marta e Lara di mostrano i due felini che avevo visto nella guida: sono impressionanti, la loro superficie è tutta levigata. 
Mi giro e mi siedo su una pietra, accendo una sigaretta e appoggiato alla parete di roccia osservo questo antico fiume: il letto sabbioso corre da destra a sinistra (o da sinistra a destra?), l'argine opposte sale calmo verso la baracca del Tuareg, mentre dalla mia parte un'alta parete rocciosa formata da massi enormi mi parla da ere ormai cancellate dallo scorrere del tempo. 
Me ne torno verso il campo pensieroso, e scopro che Aroun ci ha preparato l'acqua calda: mi faccio un thè, mangio qualche biscotto fissando l'argine dello Wadi. Poi mi cambio, metto le scarpe da ginnastica, con Fiky monto la tenda, quindi mi incammino da solo verso la parte opposta delle rocce, e vi trovo un'infinità di graffiti, uno più bello dell'altro. Ma forse il concetto di "bello" qui è completamente ininfluente, superato, inutile. Non c'è una parola per indicare questa "cosa". 
Torniamo al campo, è ora di cena, la notte scende repentina, e dopo un'abbondante mangiata noto che, di fronte al fuoco, ci sono anche i Tuareg, seduti tra noi, e stanno facendo il loro thè. Non un thè, in generale: il LORO, creato con movimenti antichi, con una cerimonia che mentre la guardo, la metto a confronto con i gesti che millenni prima hanno scolpito nella roccia figure banali consegnando alle generazione future testimonianze della nascita del genere umano. 
Questa volta i Tuareg stanno tra noi, e ci offrono il loro thè: tre tazzine, come avevo letto in un libro, per sancire tra noi e loro la nostra momentanea amicizia. Il loro thè è forte, molto forte, e molto zuccherato, versato in minuscoli bicchieri, e ricoperto da 1 cm di schiuma. Quando chiediamo ad Aroun perchè ci sia la schiuma lui risponde che la schiuma serve e proteggere il thè dalla sabbia, che si appoggia sulla schiuma e non scende nel liquido: quindi prende il bicchiere e ridendo ci mostra come si beve il thè. Una sorsata rumorosa per inghiottire la schiuma, e un urlo acuto, con gran risata finale! Questo ragazzo si dimostra da subito una persona simpaticissima e cordialissima, che a fine giornata, davanti al fuoco, vuole parlare, cantare, suonare, ballare, ridere e scherzare. 
Seduto su un tronco, intona una canzone sul Ténéré veramente bella: quando gli chiediamo cosa significhino le parole in Tamashek, lui ci dice che parla di due amici che si sono conosciuti nel Ténéré da bambini, e poi non si sono più visti, tornati alle loro tribù; ma ogni volta che tornano con le carovane nel Ténéré, si ricordano l'uno nell'altro. "Come voi" - continua Aroun - "quando tornerete in Italia, quando penserete al Ténéré ricorderete il vostro amico Tuareg che vi cantava la canzone". Si, amico Aroun, la canticchio ancora quella canzone, e con molta triste nostalgia ripenso a te, ai due Sharif, ai miei amici compagni di viaggio, e al Deserto. 
Quella notte in tenda scoprirò il gelo della notte sahariana. 

GIOVEDÌ 18 DICEMBRE

Mi sveglio semi congelato varie volte nella notte, e sento il silenzio rotto dal rumorosissimo russare di Cielo! Impressionante, fa dei versi spaventosi, sono persino indeciso se sia lui, perché alcuni sembrano inumani. 
Alla fine la mattina arriva, esco dalla tenda e a pochi metri da me i cammelli si stanno spostando, disturbati forse dalle nostre voci. Lauta colazione, e via con Assan Sharif e vedere uno a uno i graffiti. Sono tantissimi, e bellissimi. 
Finita la visita, salgo in moto, mi disinsabbio, faccio il pieno di benza e salgo verso l'uscita dallo Wadi, dove c'è la capanna del Tuareg. Lasciamo andare avanti per qualche km le auto, poiché noi in moto in questa pietraia ci muoviamo molto più velocemente, quindi partiamo. Faccio un cenno con la mano al solitario Tuareg che mi risponde animosamente; quando rivedrà altre persone? 
Ripartiamo sulla pietraia, le dune distanti segnano il confine dell'inizio del Idhan Murzuq, il Mare di Sabbia di Murzuq. Noi corriamo paralleli circa a questo confine col nulla di sabbia, quindi ci addentriamo nuovamente in una pietraia ancora più sconnessa, quindi ancora più divertente. 

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Di nuovo lasciamo andare avanti i fuoristrada, che però dopo pochi minuti sembrano svaniti nel nulla. Eppure il terreno sembra tutto piatto, nero come la pece cosparso da questi sassi che sembrano assorbire tutta la luce del Sole. Ci rimettiamo in moto, e l'arcano si svela: di fronte a noi il terreno si spacca, letteralmente, e questa enorme fenditura nasconde un profondo letto di un antico fiume. E' assurdo, la spaccatura è enorme ma la vediamo solo quando ci siamo ormai vicini. Nel deserto nulla è ciò che sembra. 
Assan Sharif ferma tutte le auto, ma fa cenno a noi di scendere: la cosa mi puzza! E come comincio a fare i primi metri di quella ripida pietraia in discesa, comincia a puzzare ancora di più! E come, poco dopo, scoprirò che dovrò rifarla in salita, in pratica emette un tanfo pestilenziale di Transalp distrutta! 
Arriviamo sul fondo di questa valle incantata, ed ancora mi stupisco di come questo luogo nasconde queste perle, attraverso le quali gli Uomini del Deserto possono vivere in questo ambiente inospitale. Ed infatti anche qui ci sono un sacco di graffiti, tra i quali un bue con due corna enormi veramente bello. 
La risalita della pietraia è piuttosto dura, ma alla fine ce la facciamo tutti, salvo un punto in cui ogni moto praticamente si pianta. Un video con la telecamera di Mario ci permetterà, a casa, di vedere la nostra impresa dall'esterno, anche se come al solito, in video ed in foto, le rocce sembrano più piccole e le pendenze più lievi. 
Si riparte, durante la strada, che questa volta punta dritta verso le dune del Murzuq, lontano vedo i ciuffi di Erba Cammello che indicano lo scorrere di un fiume sotterraneo, proprio parallelo ai confini dell'Erg, metto la moto di traverso e le faccio una foto, poiché il panorama è veramente spettacolare. Come riparto scopro comunque che, vista l'ora, ci fermiamo proprio in mezzo ai cespugli per mangiare. 
Si riparte subito finito il pranzo, le dune sono sempre più vicine. Questa volta a complicare la situazione ci sono anche salite e discese, il tutto tra grosse pietre acuminate e la sabbia, che adesso è sottilissima e comincia a farsi sentire nella guida, che diventa complessa. Qui faccio la mia prima insabbiatura, in una lingua di sabbia contornate da rocce troppe acuminate per poter essere passate evitando la traccia delle vettura. E il problema nel mio caso è duplice: l'insabbiatura blocca la moto di colpo, e non sei preparato a gestire oltre 2 quintali che si piegano. Appoggio la moto a terra, stremato. Riparto, intanto sono arrivati gli altri, saliamo ancora per trovarci in sommità di un monte: dobbiamo scendere, circumnavigare un altro monticello e andare dall'altra parte, dove la polvere alzata dalle auto ci fa da indicatore della loro posizione. 
Gli altri decidono di attraversare diretti la collina pietrosa, io no: non ho dietro la camera d'aria rinforzata (un'altra cagata fattami dal gommista, oltre ai fermacopertoni), ed ho paura di forare. Farò bene, come mi dirà Michele quelle non erano pietre, erano lame affilate in cui loro per miracolo non hanno forato. 
Passiamo veloci lungo la pista per due o tre km, quindi facciamo una piccola salita pietrosa molto divertente e ci troviamo su un altopiano di pietre da cui la vista è mozzafiato. 
In uno Wadi pieno di erba cammello vedo le auto che si fermano, le ombre sono ormai molto lunghe: arrivo vicino a loro, parcheggio in stile desertico, e finalmente mi riposo. E' stata una giornata stancante. Dormiremo lì, nel Massak Settafet (fiume nero, Assan mi dice che "di là" c'è anche il fiume bianco), tra gli arbusti, riparati dal vento, in un paesaggio mozzafiato. Continuerei così tutta la vita. 
Una bella cena, tante risate attorno al fuoco, il cielo stellato sopra di me, il deserto del Sahara tutt'attorno... 

VENERDÌ 19 DICEMBRE

Si riparte. Uscire dalle sabbia mobili di questo Wadi è per me già un'impresa durissima, terribile da farsi al mattino, come prima prova. Ripartiamo per un plateau gigantesco di sabbia con più presa, largo svariati km e delimitati da catene di roccia che sembrano realmente una costa. Ne ho poi la certezza quando le catene, a destra e a sinistra, smettono di colpo, e di fronte a noi il plateau continua piatto ed arido: questo era, in epoche remote, un enorme fiume, che qui sfociava. Dove, in un mare? In un lago, forse? Alla mia destra e alla mia sinistra osservo l'allungarsi verso l'orizzonte di questo antico bacino. 
All'orizzonte compare una torre, una stazione petrolifera: è il primo segno di "civiltà" da 2 giorni, e sinceramente non mi piace per niente. Ci fermiamo, mentre le auto vanno a fare il pieno di gasolio! Un distributore... in mezzo al deserto! Lontane noto di nuovo ricompare dalla foschia che leggera si dirada le dune dell'Idhan Murzuq, che da un po' non vedevamo. Osservo Mulhai che si siede sul paraurti del suo Pick-Up ad osservare il deserto sabbioso lontano. Cosa pensa quell'uomo, cosa pensa un uomo così quando vede questo tipo di territorio? E' veramente possibile scegliere di viverci? Ha senso? Non ha senso, in realtà, alcuna di queste domande. Mi metto a sedere, accendo una sigaretta e lo imito, guardando l'orizzonte, ma il mio cervello "occidentale" mi confonde con una massa infinita di pensieri. Ho tanto studiato filosofia all'università, tanti trattati per capire origine, natura, del fantomatico nichilismo, quando basta vivere qualche giorno nel deserto per comprenderne in un colpo solo l'essenza, senza mediazioni. "Vasta, muta e concisa enciclopedia del nichilismo", come scrive Pep Subiròs. 
Ritornano le auto, e riprendiamo la nostra corsa verso... cosa? Nulla, verso il nulla. Ed a questo punto, circa, accade il dramma: un terreno leggermente pietroso in cui la mia moto si trova pienamente a suo agio. Basta accelerare un po' e schiacciare una pedana, e lei reagisce. Bellissimo, velocità incredibili: ogni tanto una dunetta concede un piccolo salto, una piccola impennata. Mi ritrovo molto a mio agio col suo nuovo assetto. Fatto sta che derapa di qua, derapa di là, terza marcia piena, faccio un saltino ma subito dopo trovo della sabbia soffice. Forse non apro bene il gas, forse ero un po' sbilanciato: il davanti si pianta nella sabbia, io resisto alla prima sbandata, ma non alla seconda. Mi trovo a rotolare, sento il rumore del motore, ho paura che la moto mi investa, apro gli occhi ma vedo tutto giallo. Mi rotolo ancora una volta, e mi trovo steso per terra mentre l'ultima sabbia cade al suolo. Mi alzo, la spalla destra mi fa un male incredibile. Spengo la moto, che giace al suolo, la sabbia tutta smossa. Arrivano gli altri, impauriti. Cielo era dietro di me e mi dice che di colpo ha visto una nuvola di sabbia sollevarsi ed io non c'ero più, poi ha visto me e la moto stesi. Mi muovo un po', ho anche una botta al ginocchio, ma la spalla mi fa un sacco di male. Mi gira un po' la testa, provo a muovere il braccio e fortunatamente si muove; è un dolore più muscolare. Mi siedo al suolo, bevo un po' di acqua, mi scrollo un po' di sabbia di dosso, e osservo la moto. Il parabrezza è venuto via, ma non si è rotto fortunatamente. Per il resto sembra tutto ok. Gli altri me l'hanno rimessa dritta. Bestemmio: questa botta alla spalla pian piano fa meno male, ma so che me la porterò avanti a lungo e mi rovinerà in parte il viaggio. Comunque, finire così dopo un gran volo a circa 70/80 km/h non è male, anzi! 
I Tuareg sono i più impensieriti, ma quando mi vedono muovermi bene e ridere cominciano a ridere a loro volta. "Vitesse c'est dangereux", mi ripete Assan, mentre Aroun mi parla in francese indicandomi il braccio, e Mulhai mi osserva silenzioso ma sollevato.
Si riparte. Ci avviciniamo sempre più alle dune, e per la prima volta vedo, dopo una cunetta, il culo dell'auto piegarsi in avanti: la pendenza è elevata. Ci arrivo, la faccio tranquillamente, anche se in discesa, dove devi tenerti indietro, la spalla mi fa dannare. Subito dopo le auto si fermano, c'è un'enorme duna non troppo ripida; gli altri salgono, io sul momento non me la sento, ma poi dico "Fanculo", stringo i denti, e parto. La Transalp mi stupirà, salendo fino in cima. Arrivo, gli altri mi applaudono, spengo la moto e la parcheggio insabbiandola, quindi mi massaggio la spalla dolorante. Mi giro, ed ammiro il maestoso panorama che mi si mostra. Inutile negarlo, hanno ragione i Tuareg: "Il deserto è terribile e spietato, ma chi lo conosce è costretto a ritornarci". Si, io qui ritornerò.
Cicca di rito, quindi scendo e subito mi spalmo un bel po' di Lasonil. Mi rivesto e cammino verso la duna, risalendola un po'. Assan che incrocio per la strada mi fa vedere un pezzo di uovo di struzzo: "Ma qui c'erano gli struzzi?" gli chiedo, e lui ridendo "Si, duemila anni fa". Incredibile. Mentre Aroun prepara il pranzo salgo ancora un po', quindi mi appoggio stanco alla sabbia soffice e mi lascio coccolare dalla duna e dal vento. 
Dopo pranzo ripartiamo, questa volta siamo ancora più emozionati poiché ci stiamo per addentrare nel Tadrart Akakus, un massiccio montuoso, come lo definirò poi io, "in decomposizione". 
Come ha detto Mighe, che quando scrive i report è fantastico: L'Akakus non esiste. L’Akakus è un luogo della mente, è un mare assurdo dove onde di sabbia d’oro e di rame sollevano incredibili spruzzi di roccia nera. 
Nell'Akakus non entri, è lui che di colpo di circonda, e in men che non si dica, dalle sabbie dorate delle dune, dai plateau interminabili, ti trovi in mezzo a un panorama indescrivibile. 

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Un massiccio montuoso sgretolato da mani immense, in rovina lenta, ere ed ere lo hanno trasformato in un paesaggio irreale, essenza di ogni incubo e di ogni sogno: non c'è il tempo, nell'Akakus, di farsi domande: non c'è tempo in generale. Montagne nere che si disgregano, enorme ammassi di pietre nere, sabbia color dell'oro, giochi d'equilibrio impossibili, pare che eccetto per i nostri mezzi la gravità non valga. 
Ogni angolo nasconde un panorama diverso, cela geometrie impossibili, visioni ultraterrene. L'Akakus è imponente, maestoso, terribile, solenne. E' un monumento eretto al pianeta. La sabbia gialla scende da alcuni picchi, o forse li risale, o forse sono semplicemente i picchi che sprofondano in questo mare. L'Akakus lascia tutti quanti noi senza parole. 
Dietro un'altura, una conca tra due pareti rocciose racchiude una lingua di sabbia morbida che i Tuareg decidono sarà il nostro campo. Penso che mai luogo fu più appropriato per piantare la propria tenda. 
Quando il sole cala, le alture nere scompaiono alla nostra vista, e le loro sagome sembrano figure incise nell'immensa Via Lattea. 

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SABATO 20 DICEMBRE

L'Akakus è un sito protetto dall'Unesco, ringraziando il cielo. Ogni suo angolo, dove sono stati ritrovato graffiti o pitture, è segnalato da un cartello apposito e, spesso, anche recintato con foglie di palma; ottima scelta, che non compromette con cavi d'acciaio o plastiche la visione del panorama complessivo. Dopo alcuni graffiti, vediamo per la prima volta, scortati dall'esperto Assan Sharif, i dipinti: dal buio del tempo emergono quasi magicamente, ombre rosse sulle rocce. Dipinti con ocra prodotta con elementi naturali, la sostanza grazie a condizioni climatiche uniche si è "fusa" con la roccia, rimanendo per millenni a testimonianza dei pensieri, forse i sogni, o messaggi comunicativi, di persone, esseri umani come noi, solo distanti nel tempo millenni e millenni. 
Sono opere più recenti dei graffiti, ma forse ancora più sconvolgenti perché non ci sono più solo elementi singoli, ma vedremo anche vere e proprie ambientazioni: un villaggio, la caccia, una guerra fra tribù persino. Sono impressionanti. Io rimango completamente disorientato in questo sali scendi dalla moto: vedi una pittura, risali in moto meditabondo, arrivi dopo pochi minuti ad un'altra pittura che ancora stai pensando a quella di prima, e questa si aggiunge alla precedenti, aumenta la mole di pensieri, e col caldo che quest'oggi è fortissimo ti trovi completamente disorientato. 
In una volta troviamo anche un "braciere" preistorico: un profondo - quasi un metro - foro nella roccia viva, largo varie decine di centimetri, levigato sulle superfici interne: come hanno fatto a scavarlo? La roccia è durissima: doveva essere una località di vita stabile, non avrebbe senso fare un lavoro simile per solo qualche mese di ferma. Ma il dipinto assolutamente più impressionante che vedrò sarà lì vicino: su una parete decine di mani, perlopiù più piccole delle mie, ma tutte differenti. Sono tantissime. Devono essersi messi l'ocra sulla mani e le hanno stampate, perché ci sono spazi senza colore dove la mano non tocca, sulle pieghe delle falangi e l'attaccatura delle dita. Alcune sono più marcate, altre meno, alcune piccole, altre tozze, altre affusolate, altre spalancate, altre più socchiuse. Non sono semplici dipinti, sono la loro firma. E' impossibile resistere alla tentazione di appoggiare la propria a lato di una di essere, e sentirsi partecipe della vita di quelle antiche popolazione. E' come se la roccia vibrasse, parlasse, come se fosse viva, come se fosse uno specchio. 
Su alcune scene di caccia è perfettamente riconoscibile il fido amico dell'essere umano: un cane, vicino al suo padrone, che armato caccia dei bufali. 
Ci fermiamo vicino ad un pozzo, con una costruzione in cemento dove vive un Tuareg. Un vecchio motore "Detroit Diesel" dà un non so che di strano a tutta la scena. Quando poi veniamo raggiunti da una macchina della polizia, in pieno deserto, la scena diventa veramente irreale: il nulla, uno che vive nel nulla, una comitiva di turisti e dei poliziotti tutti lì contemporaneamente, per caso. Poco dopo all'orizzonte compare anche un Tuareg con 4 cammelli: scena ancora più assurda! Siamo in tanti, in troppi, tenendo conto che siamo nel deserto! Il cammelliere arriva chissà da dove, e poco dopo se ne riparte chissà per dove. Che gente misteriosa e fantastica. 
Dietro la costruzione c'è un tubo piantato nel terreno: me lo indica Michele, e mi fa cenno di ascoltare. Di colpo sento un flauto! Sul tubo qualcuno ha praticato dei fori, e il vento che vi entra da sopra crea inquietanti melodie, assurdamente anche originali. E' poesia materializzata. E' assurda bellezza. Insensato splendore di una regione che, in effetti, in ogni angolo ti dimostra che il reale è oltre. Il reale è oltre l'Akakus. Il reale è oltre il deserto, perché il reale è troppo piccolo per contenerlo. 
Si riparte per visitare altri siti con dipinti e graffiti. Nel corso della giornata abbiamo varie volte attraversato righe di erba cammello con ciuffi belli alti: le auto si buttano per prime, coi Tuareg che indicano la strada, noi moto subito dopo. Poiché in questa infida sabbia io non posso assolutamente stare sulle loro scie, faccio lo slalom tra i ciuffi d'erba seguendo poco distante la direzione delle auto. In un punto simile, le auto entrano alla mia sinistra; davanti a me c'è Michele, qualche metro ci separa. Lui un ciuffo lo lascia a destra, io a sinistra; un ciuffo, due ciuffi, tre ciuffi, e non vedo più nessuno! Avanzo un po' ma non vedo nè Michele nè le auto: accelero, mi sposto un po' e trovo delle tracce che però, dopo qualche metro, le riconosco come troppo vecchie per essere le nostre. Spengo il motore, ma non c'è nessun suono: Mario ci aveva detto che, se ci fossimo persi, avremmo dovuto fermarci, tornare eventualmente indietro solo se le nostre tracce sono facilmente riconoscibili, e cominciare ad aspettare. Decido quindi di andare ancora un po' più a sinistra, memorizzando la mia posizione attuale per poter tornare indietro, e dopo qualche minuto trovo le tracce che, seguite, mi portano ad un altro Wadi dove gli altri mi stanno aspettando. Il deserto non perdona. 
Durante un'altra visita ai graffiti saliamo in un punto abbastanza alto per consentirci di riconoscere, nella valle, il percorso dei fiumi sotterranei disseminati in superficie da rigogliosi ciuffi di erba. 
La visione spettacolare. Lì nelle vicinanze abbiamo anche visitato un sito in cui, ci dice un cartello, è stata ritrovata l'unica mummia del Sahara: l'ha ritrovata, tra l'altro, un italiano, il maggior conoscitore e in parte anche definibile scopritore dell'Akakus. il prof. Mori. 
Assan Sharif ci dice che ora andiamo verso un accampamento di Tuareg: avevo letto nella guida che infatti alcuni Tuareg, oppostosi all'urbanizzazione "richiesta" da Gheddafi, sono rimasti nell'Akakus. Non pensavo li avremmo visti, ma probabilmente le nostre guide Tuareg li conoscono ed approfittano dell'occasione per passare a salutarli e, scopriremo poi, portargli qualche medicina. 

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Arriviamo in un'ansa tra i monti, ed alcune baracche ricoperte con foglie sono il villaggio in cui vivono queste persone. Attorno non c'è niente. Neppure lì c'è niente. Cosa mangiano, cosa fanno durante la giornata, cosa pensano quando si svegliano, quando si addormentano. E' un concetto di "vivere" a noi completamente estraneo, per questo anche si sottrae a qualsiasi giudizio. Mentre scendiamo dalle foto, un Tuareg si avvicina alle nostre guide, che ci fanno segno di oltrepassare un filo spinato appeso attorno al campo, forse più per i turisti che per eventuali animali pericolosi. Alla nostra sinistra vedo un Tuareg molto vecchio che, con passi lenti, aiutandosi con un bastone, emerge dalle sabbie. Avanza per un po', poi si ferma, e si siede a terra a gambe incrociate. Assan ci dice di avvicinarci, e tutti assieme lo facciamo, lo salutiamo, e silenziosi ci sediamo tutti attorno a lui. E' molto vecchio, ma non ha rughe: quando gli chiediamo quando anni ha, Sharif traduce la sua risposta con un'espressione che ci lascerà sbalorditi: "He doesn't know". Non sa quando è nato. Ma in effetti, a cosa serve saperlo? 
Quando sente che siamo italiani, scopriamo che lui è stato l'aiutante del Prof. Mori stesso, ce lo dice ridendo! Credergli? E perché no? E' stato lui ad indicargli la mummia stessa! 
Poco più avanti troviamo un arco con varie colonne interne splendido, magistralmente scolpito dalla natura nel corso dei secoli. La visione è rovinata dai primi turisti che incrociamo in questo nostro viaggio: un gruppo di Belgi, con 3 moto. Io li saluto, quindi me ne resto vicino alla "scultura": è impressionante. All'interno dell'arco la roccia è modellata in stranissime forse, a tratti sembra quasi spugna stritolata. E' un capolavoro che mi lascia esterrefatto. Esiste dunque un Dio? Queste non sono cose che può creare il semplice caso. Si, lo ammetto, ho avuto crisi religiose! Ma sono passate, ovviamente... 
Ricominciamo a fare bellissime pietraie: in una di questa ci fermiamo. Ci sono un sacco di sassi dritti, e pensiamo subito a qualche cosa fatta dai turisti. In effetti è così, ma comunque questi sassi sono strani. Ce lo diciamo io e Michele, ed io dico "Sembrano legna". Ed in effetti è proprio così: è legno d'albero pietrificato! E' riconoscibilissima la corteccia, ed alcune sezione hanno ancora l'impronta degli anelli di crescita! Incredibile, un bosco antico forse quanto i dipinti, o di più? 
Ma il sole scende ancora, e noi invece non vorremmo scendesse mai più! Dietro ad una roccia le guide ci indicano il nostro prossimo campo: una parete di roccia crea una conca ricoperta di sabbia, ed al centro un enorme ammasso roccioso ha al centro una cavità, un foro. 

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La sabbia si arrampica su per la parete di roccia. Nei pressi dell'ammasso roccioso, invece, forma come una trincea. Io parcheggio la moto stremato dalla fatica della giornata nell'avvallamento della trincea, ai piedi dell'arco, mentre i miei 3 amici si arrampicano sulla duna, verso il cielo. 
Montiamo le tende sul bordo della trincea.
A cena Assan Sharif ci prepara il pane Tuareg: avevo notato che Mulhai Sharif teneva il fuoco più alimentato del solito, e soprattutto le braci distese su una superficie più ampia. In una terrina Sharif prepara prepara l'impasto di farina e sale. Quando è pronto, lui e Mulhai tolgono le braci dalla sabbia, tolgono anche un po' di sabbia, vi stendono l'impasto sopra, ricoprono di sabbia e di braci. Il pane resterà lì un'ora circa, nel frattempo noi mangiamo. Dopo cena, tutti seduti attorno al fuoco come ormai è consuetudine fare, Sharif dissotterra il pane, e con un coltello lo ripulisce abilmente dalla sabbia. Ne taglia dei pezzi e ce li porge. Col thè è ottimo: sarà anche l'influenza psicologica, sicuramente. Fatto sta che è ottimo. E soprattutto, non trovo neppure un granello di sabbia. 
Dopo cena ci ritroviamo tutti quanti, al solito, davanti al fuoco: l'instancabile Aroun scrive i nostri nomi sulla sabbia e canta una canzone dedicando a ciascuno di noi una strofa. C'è poco da descrivere, sono emozioni che non possono essere verbalizzate. 

DOMENICA 21 DICEMBRE

Ci svegliamo infreddoliti, io più di tutti, ed un po' triste: oggi è l'ultimo nostro giorno nel Tadrart Akakus. 
L'alba crea sfumature di colori impossibili da concepire nel mondo di tutti i giorni. 
Tra un dipinto e l'altro, ci addentriamo in una zona diversa: la sabbia è molta di più, i picchi più bassi, più sgretolati. 

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Dev'essere una zona molto più antica del massiccio montuoso. Amo la mia moto, che mi ha portato fino a questo posto incantato. 

Su alcune grotte il lavoro millenario del vento, della sabbia, forse dell'acqua, crea sculture magistrali. Incredibili. 
Geometrie assurde, gravità sconvolta: mi sento come dentro ad un racconto di Lovecraft. 
I picchi sono sempre più erosi, più sgretolati, la sabbia e i ciottoli sempre più diffusi: sembrano guglie di una cattedrale gotica sommersa, l'atmosfera dell'omonimo brano di Debussy è perfetta. 
Ha ragione Michele: l'Akakus non esiste, non può esistere. Il panorama offertoci durante la sosta pranzo ne è la conferma decisiva. 
Finito il pranzo, usciamo tristi dal massiccio montuoso. Akakus, tornerò, ti rivedrò, non posso vivere senza tornare da te. Lascio un pezzo di animo tra quelle rocce. 
Le guglie di questa città fantasma si allontanano sempre più, sabbia, ciottoli, Wadi, ne passiamo tra l'altro uno che porta i segni evidenti di una piena non troppo distante nel tempo: la terra è scavata, i ciuffi di erba cammello alti, con una profonda base di terra erosa dall'inconfondibile fluire di acque impetuose. Un altro wadi, quindi una serie di dunette di 6/7 metri molto belle. Le facciamo tutte, anch'io: oggi la spalla mi fa meno male, fortunatamente. Ce n'è una particolarmente ripida: Michele la risale prima di me. Io salgo, arrivo in cima, la sommità affilata come una lama; la moto si inclina in avanti, e in quel momento vedo Michele alla base che cade. La mia moto comincia a fare la discesa, lì non posso proprio fermarmi, ma Michele caduto si rialza e tenendosi un piede dolorante si gira e si mette proprio di fronte alla mia direzione d'arrivo. Urlo "Via!", riesco un po' a girare la moto, e lo evito: abbiamo sfiorato la tragedia!
Facciamo un altro wadi, nel frattempo abbiamo raggiunto le auto, ancora un po' di erba cammello, quindi vediamo delle baracche e delle auto. Mai visione fu più triste! Ancora qualche baracca, un po' di fango, e tristemente, dopo 5 giorni, sotto i nostro tasselli ritroviamo l'asfalto. Andiamo in un distributore a fare il pieno di benzina alle moto ed alle riserve.
Ripartiamo, si fa sera. Teoricamente, ci dicono, dovevamo tornare al campeggio di Germa, ma è troppo distante. Lì vicino c'è un cordone di dune: le valicheremo, e passeremo la notte ancora una volta all'addiaccio, protetto dal mio amato deserto di sabbia. Usciamo dall'asfalto, e dopo un po' le vediamo. Assan ci dice di passare una duna di 5 metri circa. Dopo quelle già fatte, pare una cazzata. Gli altri 3 motociclisti passano tranquilli, arrivo io, comincio a fare la salita... e la moto sprofonda nella sabbia fino alle forcelle! 

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Provo a dare un'accelerata, ma faccio solo una gran fontana. Spaventoso! Assan si mette a ridere, come tutti, del resto; e del resto, rido anch'io! La moto è letteralmente sprofondata in corsa: è un tipo di sabbia particolarmente sottile e leggera che i giorni seguenti, nell'Ubari, tra i laghi di Mandara, mi farà dannare. Presa con troppa semplicità, come la moto ha cominciato a cedere è bastata quel po' di gas in più per farla sprofondare. Fossi stato in terza, la coppia me l'avrebbe spinta su con più tranquillità. 
Disinsabbiata la moto, riparto, e raggiungo gli altri, dove faremo il campo. 
Parcheggio la moto pensando sconvolto a cosa mi attenderà i giorni seguenti, ma scalando una duna e andando ad ammirare il panorama circostante: l'asfalto, distante poche centinaia di metri, nella mente è invece già nell'oblio. 
Comincia la lunga fase del tramonto: qui, il sole comincia a tingere il cielo di colori maestosi molto prima di sprofondare sottoterra. Ma quando deve scomparire, lo fa d'improvviso. Comincio a scattare varie foto ai vari momenti del crepuscolo, mentre il vento solleva un po' di sabbia dalle creste di queste splendide dune dorate. E' il più bel tramonto che abbia mai visto. 
Il vento solleva un po' di sabbia dalla cima delle dune e la porta lontano, chissà dove. Queste dune probabilmente si muovono, con un passo lento, impossibile a vedersi per l'occhio umano, per l'infimo organo di questo piccolo essere mortale. 
Il tramonto prosegue, tingendo le dune di variazioni di giallo sempre diverse. Lontano vedo una delle nostre guide: ha attraversato tutto il cordone di dune, quindi è andato in cima ad una, e osserva silenzioso l'immenso mare immoto dell'Idhan Ubari. La facilità con cui camminano nella sabbia è impressionante: non sprofondano, non faticano, lasciano poche impronte. In pochi minuti coprono una distanza che io coprirei in mezz'ora, affaticandomi alquanto. Dietro una duna vedo Mulhai rivolto verso l'invisibile Mecca che prega, e sto qualche minuto a guardarlo. Mi piace vedere i musulmani che pregano. Dai loro gesti sgorga un'immensa fede. 
A cena, di colpo le mie due amiche Lara e Marta impazziscono: hanno visto un topo strano, che si muove come un canguro. Il mitico Topo delle Piramidi! "Ma siete sicure?" - "Si" - Ma è andato via. Poco dopo però lo rivedono, e lo rivedo anch'io: cominciamo a corrergli dietro. E' bellissimo, piccolo come un topo di campagna, si muove a tratti come un topo normale, a tratti saltando alto. Io abbandono la ricerca, per lasciarlo in pace: è chiaramente attratto dall'odore del cibo; le piccole però continuano a corrergli dietro, ma lui è ovviamente più veloce. Ancora una volta il Tuareg mi stupisce: Assan Sharif si alza, va verso il posto dove le bambine dicono che c'è il topo, e dopo neanche un minuto torna col topo in mano, tenendolo per i fianchi! Come avrà fatto? Un topo è velocissimo, scattante, ed oltretutto si divincola abilmente da qualsiasi presa. Questi uomini sono pieni di segreti. 
Lo porta dove noi mangiamo, e lo osserviamo: il topo non è neppure aggressivo, possiamo anche accarezzarlo. Sharif lo tiene per la coda, prende un po' di Cous Cous e glielo dà. In seguito, anche dopo cena, lo vedremo spesso gironzolare attorno al campo. Noto, prima di andare a letto, che i nostri Tuareg hanno lasciato gli avanzi del cibo in una ciotola, all'aperto: la vita del Tuareg dipende anche dagli animali. 

LUNEDÌ 22 DICEMBRE

Oggi è il compleanno della mia moto, 3 anni dal giorno del ritiro. Ho deciso da cambiarle nome: il primo era Lulav, un termine ebraico che indica i rami di piante usati durante la festa delle Palme; il secondo Legione, dal nome dell'indemoniato del Vangelo; il terzo sarà Itràn, ovvero "Stelle" (plurale) in Tamashek, la lingua Tuareg. Quando partiamo, devo rifare le 3 dune terribili del giorno prima. Tutte ok, sono sopra all'ultima tutto contento, ma al momento di discenderla scopro che il versante in discesa nasconde un avvallamento formato da un'altra dune. La caduta è rovinosa: nessuna botta a me, ma freccia e specchietto destri rotti. Gran bel modo di farle festeggiare gli anni! Risaliamo sul maledetto asfalto e ripartiamo. C'è da dire che questo asfalto è terribile: la sabbia lo distrugge, creando buche ma, soprattutto, tantissime cunette, simile al Tole Ondulée ma più lunghe, che provocano fastidiosissimi saltini alla moto. E' un viaggio massacrante, dobbiamo fare 200 km e i primi 40 ci rompono già le balle! Michele, tra l'altro, non lo sopporta per via della sua schiena. 
Dopo un po' ci allontaniamo dall'asfalto per fare la sosta pranzo. Mangiamo e facciamo il pieno: questa volta ciuccio io dal tubo per far scendere la benza dalla tanica. Solo che io sono friulano, e sono abituato a fare la stessa cosa con le damigiane di vino. Per cui, quando aspiri, sfrutti anche l'occasione per farti una bella sorsa di vino. La sbadataggine mi farà fare la stessa cosa qui, bevendo un sorso di benzina libica. Il sapore non mi resterà a lungo in bocca, ma per tutto il giorno ad ogni rutto emetterò vapori che mi faranno temere ad ogni sigaretta accesa di patire una infelice combustione interna. Morire bruciato in mezzo al Sahara non è proprio il massimo! Ripartiamo, e facciamo un'altra sosta: è durante una di queste che Michele e Mario decidono di provare la Transalp, verso il quale provavano molti dubbi. I giudizi pienamente positivi che le rivolgono mi riempiono d'orgoglio. 
E così, ad un certo punto, usciamo dall'asfalto, un po' di terra, un po' di ciottoli, quindi comincia la sabbia, e vedo l'inizio dell'immenso Idhan Ubari avvicinarsi, e con esso la mia sofferenza. E comincio pure bene: i cordoni di dune si avvicino, io comincio a sprofondare, devo tenere la moto ben veloce per galleggiare, ma le vetture rallentano. Devo vedere da che parte va Assan Sharif, ma lui rallenta sempre più. Io vado avanti a zig-zag ma non riesco a stargli dietro, e gli passo davanti. Rallento ancora, è il dramma assoluto: "Muoviti cazzo!" urlo. 

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Potrei seguire le scie lasciate da altri mezzi, tanto bene o male tutte portano ai laghi; però una scia va a destra, l'altra a sinistra, e dietro le dune non vedi bene la pendenza. Avventurarmi da solo lì in mezzo, basta un nulla per sparire alla vista degli altri, e per me per insabbiarmi. Mi sposto a destra e sinistra, ma niente da fare, mi devo fermare: c'è uno spiazzo in cui la sabbia ha un colore diverso e delle ondine, penso che magari quella è più dura e decido di fermarmi un attimo lì: non l'avessi mai fatto. Sprofondato fino alla forcella. Accelero un attimo, ma faccio solo una grossa fontana di sabbia. Sharif si mette a ridere, scende, e mi insegna il nome di "quel" tipo di sabbia: Fès Fès. Una cosa che devo temere: probabilmente a questo si riferiscono le leggende sulle famose sabbia mobili. A fatica togliamo la Transalp dalla sabbia, superiamo qualche duna, e partiamo per un Plateau. 

Il malumore però non può durare a lungo: il luogo è magico. E' splendido il deserto montuoso, l'Hammada; anche i plateau di serir, la ghiaietta, è bello; ma per me, l'Erg con le sue immense ed infinite e silenziose dune è fantastico. Il Mare di Sabbia è un luogo in cui mi piacerebbe addentrarmi con uno zaino, magari un cammello, e camminarci per sempre. La sua desolazione, le enigmatiche forme delle dune, questa silenziosa ed uniforme devastazione mi attrae in maniera poderosa. Passiamo attraverso una zona piatta, poi valichiamo alcune dune, scendiamo da altre, soffro, ma nel resto di quel giorno non patirò altre insabbiature. Culo indietro, gas aperto, e in discesa la moto non si pianta; culo indietro, gas aperto, marce alte, e la moto avanza nella sabbia. Quando ad un certo punto in lontananza vedo delle zone chiare che risplendono, penso sia il primo lago, e sono felice: invece è solo della terra, forse sporcata da un po' di sale, che la fa luccicare. Continuiamo così fin alle cinque e mezza quando, dopo aver sceso una duna, ci fermiamo per fare il campo. Io sono stremato, parcheggio la moto, non ho più la forza di fare nulla. Gli altri provano qualche duna: Michele prova la mia moto sulla sabbia, si gasa, parte, accelera, va su e giù per le dune; poi di colpo non sento più il rumore del motore. Vedo Fiky e Cielo che corrono verso una duna, Marta e Lara pure e urlano a Chiara "Intrattieni il Bostro"! Quando arrivo, Michele sta facendo una foto alla moto capovolta! Nessun problema, sapevo che sarebbe successo... La rimettiamo in piedi, torno al campo ancora più stremato per la passeggiata e lo sforzo di alzare la moto. Ma non ho neanche un minuto di riposo che questa volta vedo Jo insabbiato sulla duna da cui eravamo discesi per scendere al campo. 
Dopo mezz'ora passata a scavare la sabbia, la macchina si libera. 
Mi vesto comodo, e mi incammino su per una duna; ma non riuscirò a raggiungere la cresta, sono stremato, la sabbia e finissima, e la duna è ripidissima. Mi siedo, stanco, sulla sabbia soffice; mi stendo, anzi, e mi accendo una cicca, ammirando il panorama, mentre il sole che tramonta cambia ci continuo il colore delle dune, che pian piano vengono imbrunite dalle ombre della notte. 
Mai vedrò, penso, un crepuscolo più bello. Venere già risplende alta nel Cielo.
Devo dormire il più possibile, stanotte, per essere riposato il giorno dopo, quando oltre 100 km di sabbia so che mi ridurranno in poltiglia. 

MARTEDÌ 23 DICEMBRE

Smontiamo il campo, mi vesto, e vado alla moto per accenderla affinché si riscaldi: il blocchetto della chiave non gira. 
Rimango perplesso. La tolgo, la giro, e riprovo: niente da fare. Forse è andata sabbia nel blocchetto. Merda. 
Cambio la chiave, ma niente da fare. E adesso? Lasciare la moto lì, in mezzo al niente? Cazzo. 
Gli altri mi si avvicinano. Jo vuole provare: 2 minuti, e la chiave si gira. Un mito. I giorni seguenti, mentre io lotterò col blocchetto, mi risolverà sempre lui la situazione in pochi minuti. Spruzziamo ancora un po' di svitol, quindi sigilliamo il blocchetto con del nastro americano; in seguito spegnerò la moto col pulsante rosso, lasciando il quadro acceso. 
Ci inoltriamo in un territorio irreale, senza gravità apparente: tutto è storto, pare di muoversi in un'ambientazione di Escher. La sabbia è finissima e mi fa impazzire: evito come luoghi infestati da spettri maligni le zone che riconosco come infido Fès Fès. 
Arriviamo in un'oasi piena di palme e vegetazione. Come scendo dalla moto, vengo raggiunto di corsa da un arabo che, secondo me, è frocio. Mi dice in inglese (finalmente qualcuno che lo parla) che fa parte di una TV, e che stanno facendo un servizio. Mi chiede da dove vengo, io lo chiedo anche a lui e al resto del gruppo: uno è libanese, lui è libico, altri due libici, ed un tunisino. Mi chiedono alcune foto con me vicino alla moto. Uno fa anche un video mentre io e il frocio parliamo: è simpatico. Anche gli altri sono simpatici. Ancora qualche chiacchiera, poi li saluto.
Mi giro, e compare il mio primo lago tra le dune. E' una visione quasi irreale. Non è molto largo, ma è bello, bellissimo, indubbiamente. 
C'è un mercatino di Tuareg: hanno gioielli vari, tutta la serie delle loro "croci", più altre cianfrusaglie. Decido che è il posto giusto per comprarmi una collana. Sharif ci dice che possiamo fare i nostri acquisti più avanti, saranno anche più economici, ma io lo voglio fare qui. Vedo una bella collana con la Croce dei Tuareg dell'Akakus, che persino entra nel mio enorme collo: è mia, 25 Dinari. Avevo anche promesso a mia zia e mia mamma che avrei comprato delle collane anche per loro. Chiedo informazioni sul corallo fossile, ma non ne hanno - le donne conoscono tutti i gioielli fabbricati al mondo! Però ci sono delle belle collane con una croce dell'Akakus stilizzata e delle pietre di Agatha levigate. Sono belle, grandi, e belle; sono indubbiamente una bella collana; 50 Dinari. Chiedo il totale di due di quelle, più la mia, e il Tuareg mi scrive sulla sabbia 150 Dinari. Sarai anche un Tuareg, ma sei un gran tira-tacconi! Abbasso a 125 Dinari, e mi dice indubbiamente di si. Chiaro, è la somma dei prezzi che mi hai dato prima. Lo osservo un attimo: i denti marci, gli occhi un po' velati da un po' di cataratta. Potrei trattare ancora, ma a che pro? Fanculo, poveri disgraziati: tiro fuori i miei 125 Dinari e lo ringrazio. Regali fatti, souvenir per me fatto, carità fatta: tutto in un colpo solo. 
Ripartiamo. Passiamo ancora un po' di dune. Lasciamo le vetture distanti che ci indichino la strada, e noi facciamo percorsi più divertenti per le nostre moto. Arriviamo in un'altra oasi, dopo alcune palme, ci sono delle baracche in rovina. L'atmosfera è irreale: un'intera oasi abbandonata. Il lago porta ancora i segni di un campo attrezzato per turisti, con tanto di cartello di benvenuto. 
Il Ghedda ha tentato in tutti i modi di aumentare l'urbanizzazione della Libia, portando via molti abitanti del deserto. E probabilmente lasciandone solo il minimo indispensabile - quelli dei mercatini - ad majorem gloriam turistorum! Non ha minimamente capito cosa implica l'urbanizzazione: che venga a farsi una vacanza in Friuli, e poi capirà! 
Mentre visitiamo questo spettro nel deserto, le auto si sono allontanate. Le vediamo scomparire dietro una duna lontana. Ripartiamo, andando un po' veloci per raggiungerli: dopo un po', all'orizzonte ancora nulla. Solo sole e sabbia. Attraversiamo un altra oasi. Avvicinarsi a questi luoghi è surreale: sei in mezzo alle dune, e di colpo vedi delle piante. Ci entri, e pare di essere in un boschetto. Poi di colpo la vegetazione finisce, come un muro, e tu esci dalla porta di questo castello incantato, e di fronte a te il nulla. 
Fatto sta che entrati ed usciti anche da questo, le auto non si vedono. Noi però stiamo seguendo delle tracce, e teoricamente, anche se non sono quelle delle nostre auto, seguono lo stesso percorso, magari differente in alcuni tratti, ma il giro e le tappe sono identici. Passiamo un altro gruppo di arbusti, e mentre lo superiamo noto un pickup con un Tuareg che raccoglie legna; ma non è dei nostri. Saliamo su una duna più alta poco oltre e ci guardiamo tutt'attorno: niente, silenzio. Cielo si offre volontario, obbligato da tutti noi, per andare a dialogare con quel Tuareg: alla fine - il richiamo di qualche km in più di sabbia - lo segue anche Mighe. Io ricordo di un lago, di nome "Oul El Ma", che nella guida è descritto come tappa obbligata, perché il più grande e bello; quindi quello le auto dovranno sicuramente visitarlo. Quando tornano ci dicono che Oul El Ma è circa a 20 km, ma in tutt'altra direzione, oltre il cordone immenso di dune alla nostra sinistra. Non è possibile che le auto siano andate di là. Ripartiamo, e in un'altra oasi le auto ci compaiono misteriosamente alle spalle!
Poco dopo siamo al lago di Gabraoun: il lago è bello grande, molto salato, con degli animaletti rossi simili a dei gamberetti, ma molto più piccoli. I Garamanti, antichi abitanti di questi luoghi e da alcuni considerati gli antenati dei Tuareg, erano chiamati "Mangiatori di vermi" perché vivevano qui e si nutrivano di questi animaletti. 
C'è un bar, ci sediamo all'ombra della sua tettoia per godere di questa vista ultraterrena. Jo scala una duna e scende a velocità folle con la tavola da Snowboard. Altri vagano per il mercatino. Io crollo sulla sedia quasi senza forze. 
Sul muro del bar sono appesi centinaia di pacchetti di sigarette, un cartello stradale italiano, scritte di un tipo francese che farnetica, un sacco di apologie di Mr. Khadafi! Ce ne sono varie. Sulla porta del bar troviamo anche un adesivo celebrativo di un misterioso "Tony Bigola". 
Io bevo un thè: è quasi ora di pranzo, e sono sicuro che tra poco mangeremo. Mai scelta più errata: mi aspetteranno un sacco di dune, avrei dovuto far incetta di zuccheri, ma lo scoprirò a breve. 
Una volta partiti, facciamo un po' di sabbia, quindi cominciamo a valicare l'enorme cordone di dune alla nostra sinistra. E' immenso, arriviamo in cima per percorsi che si snodano fra le varie cime. Impressionante, sono massacrato dalla fatica, sudo fiumi di sudore, comincio a sentire la mancanza di zuccheri, le braccia cominciano a mollarmi. Ad un certo punto, le auto delle guide si fermano in prossimità di una cresta. Andiamo a vedere, mentre Sharif scende: la pendenza è allucinante! 
Mario scende. Michele prende male l'inizio ed è costretto a farla tutta seduto, a gambe aperte: è talmente ripida che se non la fai già in piedi, poi non hai la forza di spingerti indietro. La duna inizia con una cresta che devi prendere veloce per non insabbiarti, quindi lasciare che la moto si inclini in avanti, sbilanciando il corpo all'indietro, e cominciare a dare gas. Cielo va più tranquillo, scegliendo il punto più ripido! Jo scende, la sua auto si imbarca un po', ma ce la fa. 
Arriva il mio turno: evito di prendere quel punto, perché la cresta è piuttosto fragile per il peso della mia moto, ed inoltre è già un po' rotta. Vado un po' più a sinistra dove sembra meglio: in realtà, a parte l'attacco più semplice, la pendenza è identica. Accelero un po' per valicare la cresta, guardo dall'altra parte e lontane in basse le auto sono piccole. Gli amici mi incitano. La moto si inclina in avanti, io sono in piedi, ben posizionato, la seconda già innestata. La moto continua ad inclinarsi in avanti in un movimento per me infinito, ma che sarà stato lungo si e no un secondo. "Ok, la moto si è stabilizzata: danziamo" - e comincio ad accelerare. Culo in pratica sul portapacchi, la pendenza è assurda. Ogni volta che sento la gomma davanti affondare leggermente dò un po' più di gas. La velocità acquistata dalla moto è alta, se cado ora sono fottuto. La spalla mi fa un male cane, devo sforzarla per stare indietro e contemporaneamente comandare il gas. La discesa sembra non finire mai. Ma alla fine finisce. Con un affossamento finale, in cui la nuova forcella viene messa ampiamente alla prova, ce l'ho fatta. Mi avvicina agli altri, che mi fanno i complimenti, e concludo la vicenda con un sonoro "Andate tutti quanti a cagare!". Fantastico.
La sabbia, probabilmente anche perché scaldata dal sole a quest'ora del giorno, è ancora più soffice: e da quel momento in poi saranno solo dunette da fare, ed un'altro cordone bello alto. Pian piano sento le forze che mi mollano. Sono costretto a fare sempre più pause, durante le quali noto come la moto affondi sempre di più, anche nei punti che erano più compatti. 
Il respiro mi è sempre più affannoso, dietro gli occhiali la condensa del sudore me li appanna, dalla fronte scendono gocce sempre più frequenti. Ma sono soprattutto le sensazioni corporee che mi preoccupano: sono stanco, ma di una stanchezza particolare. Se mi riposo per qualche minuto, pare che stia meglio, ma quando risalgo in moto è tutto uguale. Il mio fisico sta cedendo. Faccio sempre più fatica a tenere la moto, e rischio svariate insabbiature; altre ne faccio. 
Durante il superamento di un cordone c'è il crollo. La moto mi si insabbia, sono da solo, la disinsabbio da solo e con questo finisco le forze. Risalgo, il respiro quasi mi spezza la pettorina, riparto ma non ho forza, le braccia sono molli, le gambe anche, non riesco a stare in piedi. Mi rinsabbio. Attendo gli altri, ormai è il dramma. Arriva per primo Assan Sharif, correndo, e quando mi vede steso a braccia aperte nella sabbia, la moto perfettamente in piedi, si mette a ridere come un matto. Tento di guidare mentre mi spingono, ma non ce la faccio. Sto soffocando, mi slaccio in fretta il casco e tolgo gli occhiali e respiro a pieni polmoni. Riposo una decina di minuti, pare che stia meglio ma come mi rimetto in moto, gli altri avanzano, io faccio 10 metri e mi rinsabbio nuovamente; torno a sollevarla, arrivo in cresta ad una duna oltre la quale c'è la discesa, ma le gambe mi mollano, cado sulla moto, che si infossa proprio sulla cresta. Scendo dalla moto e vedo pallini bianchi dappertutto. Michele si offre per portarmi la moto, ma da gran cocciuto mi rifiuto. Devo farcela. Devo. Ho questa moto, e non devo far pesare a nessuno il fatto di avere questa moto. "Se avessi saputo che il pasto era così lontano"... E' un insegnamento che terrò buono per il futuro. Mi portano delle bustine di zucchero, le sciolgo in mezzo litro d'acqua che scolo in un sorso; un altro mezzo litro me lo butto in testa. Ok, i pallini sono scomparsi: risalgo in moto, scendo dal cordone di dune, il fisico manca ma con un po' di gas ce la faccio. Su due curve mi sento come anni fa sugli sci: la moto che ancheggia nella sabbia ma avanza. Altra duna, altra discesa, altra salita, di nuovo ho i pallini, scuoto la testa, la spalla mi fa impazzire; ma finalmente all'orizzonte vedo le palme. Dev'essere lui: Oul El Ma. Riesco ad arrivare al lago in un ultimo sfoggio di resistenza fisica: non sarei riuscito a fare dieci metri in più. 
Il lago è meraviglioso, stretto e lungo, è veramente enorme. 
Mangio come un bue, bevendo litri d'acqua e anche - me le concedo - qualche Beck's analcolica. Guardo la moto, parcheggiata più lontano, e ne sono fiero: da quando l'ho comprata, 3 anni fa, continuo a dirmi che è stato l'acquisto più bello di tutta la mia vita! 
Quando ripartiamo, siamo tristi, perché sappiamo che saranno gli ultimi km di deserto. Sharif ci porta a visitare il lago dall'alto di una duna. 
Il lago successivo, quello di Mandara, è completamente prosciugato. E' una visione triste, con le sabbia che ne hanno ricoperto il fondo, e la vegetazione che pian piano muore ai suoi lati. 
Sono contento di aver visto almeno gli altri, prima che facciano la stessa fine. 
Ripartiamo, facciamo ancora qualche duna, poi comincia un terreno quasi piatto in cui riesco anche a sedermi (sempre sul portapacchi) e così a riposarmi un po'. 

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Lontane si vedono delle sagome troppo strane per essere delle dune, e troppo famigliari: sono infatti i due picchi dall'altra parte della strada di Germa. Quando ad un certo punto arriviamo in cima ad un duna, oltre la sua discesa vediamo il campeggio: incredibile, è la stessa duna vista 7 giorni prima, quella che pensavamo "non faremo mai dune simili". Invece, proprio da quella scendiamo! Quando arrivo al limitare della discesa dico "Finalmente, è finita la mia pena", ma Fiky a fianco amaramente mi risponde "Pensa invece che è la tua ultima duna". Rimango zittito. Ha ragione. Lascio che passino tutti, e scendo. Osservo il campeggio, la mia moto, l'Idhan Ubari alle mie spalle, e faccio l'ultima foto della mia moto tra le sabbie del Sahara.

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